Il personaggio di oggi è Filippa, la tigre.
Era stata ritrovata cucciola, orfana e malandata nel 2015, dagli abitanti di Filipovska, un villaggio ai bordi del Parco Nazionale dei Leopardi, nella Russia orientale. Filippa è una tigre siberiana, il più grande felino del pianeta. Per un anno e mezzo è stata rifocillata e curata dagli operatori di un centro di recupero specializzato. Man mano che si riprendeva, ha iniziato una fase di riabilitazione e reinserimento nel suo ambiente. In pratica le è stato in qualche modo insegnato quello che la madre non ha fatto in tempo a spiegarle. Circola un video, una sequenza di immagini riprese da varie telecamere fisse e da un drone, in cui si vede una cassa che si apre, Filippa che aspetta di capire cosa stia succedendo, e alla fine uno scatto di muscoli e pelliccia dalla cattività alla foresta. Verrà seguita per un po’ nei suoi spostamenti, grazie a un collare che emette segnali rilevabili tramite GPS. Infine arriverà il momento auspicato dai ricercatori che l’hanno salvata e riaccompagnata nel suo mondo, il momento in cui Filippa sarà una tigre come le altre, senza che nessuno sappia dov’è e cosa sta facendo. Inutile dire che questa storia bellissima e commovente vede nel ruolo di responsabile un’altra specie di mammifero, noi. E non perché, banalmente, noi siamo cattivi e la natura è buona, ma perché abbiamo fame di terra, di carne, di piante, di spazio, di sicurezza, di denaro, di vita, insomma, e cerchiamo di saziare questa fame a discapito di quello che ci circonda, esattamente come ogni altra specie. Somigliamo ai leoni, ai lombrichi e alle orchidee anche per un altro aspetto: diamo per scontato l’ambiente che ci ospita e protendiamo verso di esso i nostri denti o le nostre foglie e radici, il che è l’unica cosa che sappiamo fare per sopravvivere. La differenza rispetto alle altre specie sta nella potenza degli strumenti che il tempo ci ha dato. Probabilmente il tempo ha esagerato e ora ci ritroviamo con artigli infiniti, richiami sessuali che non svaniscono, stomaci immensi, indicatori di fame starati, pellicce adatte a ogni ambiente. Come direbbe Paracelso, è la dose che fa il veleno.
Spero che a Filippa resti il tempo per arrivare alla “sua” morte nel “suo” mondo, senza incontrare più sulla sua strada il prolungamento dei nostri artigli, molto più letali dei suoi.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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