C’era il sole quel giorno, come ogni 21 luglio che si rispetti. C’era una moglie che lo aspettava insieme al figlio e c’era lui, il caporalmaggiore Emanuele Secci, che aveva terminato il suo servizio e rientrava a casa. C’era un’auto ferma in panne, con due donne a bordo, sul ciglio della strada. Il loro destino si è incrociato, disastrosamente. La sventura ha fissato l’appuntamento per tutti lì, al km 19 della strada a quattro corsie che collega Sassari con Alghero.
Non è notizia di oggi, però Emanuele Secci, in stato d’arresto con l’accusa di omicidio stradale e l’aggravante dell’omissione di soccorso, è il mio personaggio del giorno.
E’ scappato, subito dopo l’incidente. Ha preso in braccio la bimba ferita e si è allontanato a piedi lasciando nella sua auto il cellulare e i documenti. Che garanzia di fuga potevano offrirgli quelle due gambe ammaccate? Che garanzia di dissoluzione nel nulla potevano assicurargli quei documenti lasciati nella propria auto?
Omissione di soccorso, grida la legge.
Può offrire soccorso chi ha bisogno di soccorso? Lo si può giudicare colpevole di un mancato adempimento? In psicologia lo chiamano stress post traumatico, cui seguono “condotte di evitamento”, per sottrarsi al contesto causa di shock, appunto. Si sono impossessate di lui, lo hanno fatto vagare come un automa fino alle campagne di Olmedo, lasciandosi alle spalle due donne morte e altre tre ferite. Il suo inconscio le ha buttate nel dimenticatoio grazie a quell’istinto di autoconservazione che, con un blackout mentale, aiuta a ingoiare il trauma.
Emanuele Secci non è il ragazzino incosciente e neopatentato che sfida la sorte premendo sull’acceleratore al rientro da un concerto con ancora le orecchie che ronzano per la musica, né l’avvinazzato che percorre un senso unico contromano. Gli esami tossicologici di Emanuele Secci erano negativi.
L’omicidio stradale è diventato legge a marzo, inasprendo il trattamento sanzionatorio dell’omicidio colposo per cercare di soddisfare il bisogno sociale di una punizione più severa nei confronti di chi, sulle strade, causa la morte di vittime innocenti.
Ho provato a mettermi nei suoi panni, nei limiti del possibile. E poi in quelli dei familiari delle donne decedute. Come nella terapia Gestalt della sedia vuota, improvvisando un dialogo da sola ho esplicitato le parti e scisso le esigenze. Da un lato c’era la sete di vendetta dei familiari delle vittime per i quali un’adeguata sanzione per quanto aspra non sarà mai abbastanza; dall’altro un uomo che per il resto dei suoi giorni dovrà lottare, senz’altro invano, con la propria coscienza per autoassolversi. Ho ascoltato entrambe le esigenze che reclamavano giustizia da una parte e comprensione dall’altra.
Ma il comune denominatore era lì, nella qualificazione di vittime. E lì è rimasto, insoddisfatto.
[foto Ansa]
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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