Giorni fa un mio amico, di professione insegnante da una vita, mi confidava di essere riuscito per molto tempo a farsi un’idea su trasformazioni e sulle differenze della società studiando l’evoluzione delle merende dei suoi studenti, insomma quel che mangiavano all’ora della ricreazione. Una volta, la provenienza dell’alunno e la sua educazione le si poteva indovinare con approssimazione minima vedendo cosa scopriva l’involucro contenente il frugale pasto di metà mattina.
I ragazzi cresciuti in certi luoghi dal benessere acquisito e scontato, già venticinque anni fa estraevano dallo zaino – o cartella, come si chiamava una volta – merende confezionate di produzione industriale, oppure focacce e barattoli di bibite gasate acquistate al bar sulla strada della scuola.
Quelli che venivano dalle campagne, o da certi paesi dell’entroterra, in spessi panni da cucina custodivano pani di casa imbottiti con salumi e prosciutti di produzione famigliare, che mi immagino pendere da pertiche appese al soffitto. Da bere portavano acqua e la bottiglietta non finiva mai nella spazzatura, come la latta di Coca Cola del loro compagno “moderno”: il giorno dopo la si riempiva alla fontana del paese, senza sprechi. Sapevano esattamente provenienza e metodi di preparazione di quel che masticavano e bevevano. Piano piano, mi ha raccontato il mio amico insegnante, i ragazzi di paese o di campagna hanno iniziato ad adeguarsi alla ricreazione sbrigativa dei loro compagni fast food. Tutto più facile, meno perdite di tempo, gusto azzerato da dolce o salato esasperati da conservanti e additivi. L’appiattimento è diventato assoluto quando fuori dagli istituti scolastici sono arrivati i camioncini bar che spacciavano panini, sempre gli stessi: cotto e fontina, crudo e fontina, salame. Quel legame residuo tra merenda, formazione, terra, abitudini è svanito. Ma siccome non c’è mai limite al progresso, si è andati anche oltre. Grazie alle macchinette distributrici di merendine industriali. All’ora delle ricreazione, i ragazzi di città, di paese e di campagna, con genitori giovani o maturi, mangiano tutti le stesse cose. Giorni fa mi hanno fatto assaggiare uno dei loro snack preferiti: le “croccantelle”. Sono dei quadratini di pane, salati e oleosi, che ti lasciano il palato come Hiroshima dopo la bomba atomica. E mentre cercavo dell’acqua per diluire il disgusto, ho sospirato di nostalgia. Pensando ai pani di casa imbottiti di salumi e prosciutti tagliati al coltello, all’alba, dalle amorevoli mani di mamme abituate a preparare la merenda ai loro figli.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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