Il mio personaggio del giorno di oggi è il Cittadino. Quello di tutte le città italiane, l’abitante di quegli agglomerati fondamentali dell’edificio sociale del Paese. Le grandi famiglie di pietra che formano l’armatura della nostra modernità. Le città, sempre più brutte. Le vogliamo così, noi cittadini? Sono la nostra espressione? O ci stiamo ribellando alla loro decadenza, come sembrano indicare, tra le mille altre cause, i risultati delle ultime elezioni amministrative? Me lo sono chiesto in questi giorni sfogliando il bel libro di Manifestolibri “Viaggio in Italia”, curato da Ilaria Agostini e Piero Bevilacqua, con un’ampia postfazione di Paolo Berdini, l’urbanista di cultura “di sinistra” e ambientalista, ora assessore della giunta 5 Stelle di Roma. Quella di Manifestolibri è una raccolta di piccoli saggi di trenta studiosi dedicati ad altrettante città italiane. Alcuni già pubblicati nella rubrica “viaggio in Italia” del Manifesto, altri scritti per l’occasione. Tracciano la storia di quello che viene definito il “trentennio liberista”, cioè le trasformazioni subite dalle città a partire dalla metà degli anni Ottanta. Il percorso comune è fatto dell’erosione della rappresentanza dei cittadini nelle loro forme associative (a esempio i comitati di quartiere) a favore dei poteri centrali amministrativi, politici e affaristici, in un intreccio inestricabile dove le gerarchie sono irriconoscibili. Gli esempi più comuni del modo in cui il moderno capitalismo si impossessa dei nuclei urbani sono, secondo i curatori del libro, la privatizzazione dei servizi e la mercificazione dei centri storici, che in molte città assumono una esclusiva valenza turistica e consumistica. Le normali e antichissime relazioni di convivenza vengono messe in crisi. Ma non è una rivoluzione, perché il processo non offre alternative. E’ soltanto una distruzione dell’esistente a favore di un nuovo modello di città che però non è neppure un modello, perché non ha un progetto. All’origine, insomma, lo stesso vizio di natura economica che sta alimentando la crisi epocale: le scelte generali, quelle politiche, compiute per avvantaggiare pochissimi ai danni di moltissimi. Tra le trenta città mi soffermo naturalmente sulle due sarde della lista: Sassari e Cagliari. Curata la prima dall’urbanista Sandro Roggio e l’altra dallo scrittore Giorgio Todde. E a proposito di Sassari penso a quel mostro di Predda Niedda, che già dal nome ha qualcosa di inquietanti periferie dei Paesi dark di Tolkien. Predda Niedda è una zona industriale extraurbana divenuta in pochi anni, in base alla cultura della deregolazione, un’immensa zona commerciale che assume l’aspetto di un pachidermico parassita che succhia e svuota la città. Roggio ne fa giustamente il punto centrale della narrazione urbanistica di questi trent’anni sassaresi e lo definisce “il più grande errore”: Predda Niedda ha creato un rapporto tra superficie commerciale e numero di abitanti tra i più alti in Italia, con “uno schiacciante trionfo della grande distribuzione che ha provocato lo scollamento tra residenze e attività commerciali, amalgama indispensabile per dare un senso all’abitare”. E mi chiedo, davanti a questa spietata analisi, quanto il cittadino avverta la sofferenza di questo squilibrio che dissangua la città o quanto mediamente non goda sino alla fine di questo simulacro di centro urbano che i centri commerciali gli offrono. Grandi “corridoi” coperti che simulano le vie con i negozi che si affacciano ai lati, posteggi inesauribili, fast food e take away quanto ne volete. Posti senza storia, uno zombie di città che però attira migliaia di cittadini che fuggono la vera città e che si aggirano nella grande distribuzione per goderne il misterioso fascino anche quando non hanno programmato alcun acquisto particolare. Un mostro che ci ha reso mostri. E con la parola mostro non intendo dare alcun giudizio estetico, ma evidenziare il carattere di creatura anomala e portentosa di questa extra Sassari. E poi la Cagliari di Todde con “il cemento che è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide”. Un codice diverso, quello dello scrittore, ma che infine raggiunge lo stesso risultato del linguaggio più tecnico e storicistico: “Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria. Ma tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono”
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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