Il dolore ci impiega alcuni secondi per arrivare. La prima cosa che si sente è il rumore, il crack. Poi l’occhio fa in tempo a posarsi sulla gamba. Il piede è disarticolato, penzola dall’arto beffardo. Scorrono immagini. Il bambino che sognava di giocare in serie A, le partite con la primavera, la maglia azzurra dell’Under 21, le vicissitudini di mercato, il Cagliari in Serie A, poi la discesa in B, la partita con il Brescia, importante per la lotta per risalire. Crack. Qualche secondo, e arriva il dolore, lancinante. E dopo, in ospedale, giunge la diagnosi, terribile: frattura scomposta di tibia e perone. La palla è lunga, e tu sei il capitano della squadra. Tu devi arrivare prima del roccioso avversario, su quella palla, perché tu sei il capitano, e il capitano non tira mai indietro la gamba. Mai. Tornerò quello di prima? Quanto volte, tra gesso, ferri, operazioni, fisioterapia, riabilitazione, Daniele Dessena, il capitano del Cagliari (comunque risalito in serie A), si sarà posto quella domanda. Prima di tutto deve recuperare l’arto. L’osso si deve saldare bene, e la muscolatura deve riprendere vigore, e tutto l’organismo non deve essere scompensato, altrimenti la ricaduta è immediata, dietro l’angolo, e incominciano le contratture e gli stiramenti muscolari. Mesi, mesi, mesi di lavoro, senza perdere mai la fiducia in se stessi. Poi deve tornare anche la condizione atletica, la forma fisica, il gesto tecnico. Mesi, mesi, mesi di lavoro, senza perdere mai la fiducia in se stessi. Poi devi avere anche la fortuna di trovare un allenatore, uno staff tecnico, che crede ancora in te, che rischia un giocatore lontano dai campi mesi e mesi, e lo fa giocare anche se non al meglio. Cose che in serie A, con la pressione che c’è, non sono banali. Mesi, mesi, mesi di lavoro, senza perdere mai la fiducia in se stessi. Infine, la cosa più importante. La testa. Tu sei il capitano della squadra, e non lo sei per caso. Lo sei non solo per le tue doti tecniche e fisiche, ma anche, e soprattutto, per l’ardore agonistico che non è mai mancato. Lo sei perché quando ci sono le mischie ti ci butti, e non tiri mai indietro la gamba. Lo sei perché hai il temperamento del trascinatore, perché hai il sangue caldo, forse ereditato da quel nonno paterno sardo, e non ti arrendi mai. Ma l’immagine del piede disarticolato, che penzola dall’arto, il rumore sordo dello spezzarsi dell’osso, il dolore lancinante, non sono cose tanto facili da dimenticare. La testa. Sarebbe tornata quella di prima? Poteva aver superato il trauma? La gamba, nelle mischie, non si tira mai indietro. E’ passato quasi un anno, da quel 28 novembre del 2015. E l’allenatore della squadra, Rastelli, decide di far giocare Daniele Dessena, per la prima volta, dal primo minuto. Fino ad ora, giusto qualche spezzone di partita a risultato ormai acquisito. La squadra vive un momento delicato, è reduce da due sconfitte consecutive. Non due sconfitte qualunque, ma due sconfitte bruttissime, perché la squadra è stata subissata da una caterva di gol. C’è bisogno di tutta la grinta e l’agonismo del vecchio capitano, anche perché si incontra il Palermo, una squadra in grossa difficoltà, e la partita si preannuncia dura, durissima. Di quelle da mischie furibonde. La partita è infatti intensa, entrambe le squadre fanno pressing a tutto campo. L’allenatore del Cagliari ha pensato di far giocare larghe le due punte, in modo da creare spazi per gli inserimenti dei centrocampisti, per il tiro preciso di Di Gennaro, per le incursioni di Padoin. Daniele, il capitano, legge la partita. Siamo nei primi minuti del secondo tempo, e il risultato è sullo zero a zero. Ecco Sau che saetta al limite dell’area di rigore, scarta uno, due giocatori, senza riuscire però a penetrare. Il capitano sente che può accadere qualcosa, che il furbo Sau, palla al piede, può gettare scompiglio nell’area avversaria, e si allarga sulla destra, appena dentro l’area. Sau scarica su Di Gennaro, che pennella un cross a scavalcare tutta l’area. Dessena vede arrivare quella palla alta, e capisce di avere una sola opzione. Il tiro al volo. Di quelli che se sbucci, ci fai una figuraccia, ma che se prendi in pieno, si gonfia la rete. Si gonfia la rete. Daniele corre, corre fino alla panchina, perché deve fare una cosa. Deve fare una di quelle cose che, forse, nella sua immaginazione, ha sempre pensato di fare. Deve abbracciare una persona. Deve abbracciare il preparatore atletico, Ibba, che per un anno, per una anno intero, lo ha seguito, allenato e, soprattutto, rincuorato nei momenti di depressione. Una storia più a lieto fine di questa, insomma, non ci poteva essere. E invece si. Perché a metà del secondo tempo, Di Gennaro lancia Sau dentro l’area di rigore, sulla sinistra. Ma Sau, il furetto di Sorgono, spalle alla porta, non crossa in mezzo all’area che si affollava, come sarebbe istintivo fare, no. Sau passa la palla indietro, rasoterra. Tutti da una parte, la palla dall’altra. Eccetto lui, il capitano, appostato ai margini dell’area. Si gonfia la rete, per la seconda volta. E stavolta l’abbraccio, ideale, è per tutto il pubblico in festa.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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