Un bambino di dodici anni che si fa saltare in aria è un terrificante ossimoro. Un ragazzino, a quell’età, rappresenta la vita e non può essere accostato alla morte. Ma un bambino di dodici anni che si fa saltare in aria, uccidendo 51 persone e ferendone 69 durante un matrimonio di una comunità curda, è un urlo contro il cielo che non possiamo non sentire. Non è pensabile, infatti, che ce ne stiamo accovacciati dentro le nostre segrete stanze di un paese asettico, lento e interessato solo di ciò che osserva davanti al giardino del vicino. C’è qualcosa di terribile in Turchia e noi, come sempre, facciamo finta di non vedere, di non capire. Perché è tutto molto distante dal “qui ed ora”. Però quest’ennesima strage ci dovrebbe perlomeno far riflettere. Hanno utilizzato un bambino e non consapevolmente. Non ci si fa saltare in aria per amore. Non si uccidono altre persone solo perché diverse. Non si accumula un odio così terribile a dodici anni. Non si può e non si deve. Nessuna religione, nessuna ideologia politica, nessuna rabbia gigantesca può produrre questo immenso frastuono. E non possiamo fare finta di non sentirlo. I nostri cuccioli d’uomo, a dodici anni, litigano per uno smartphone più all’avanguardia; corrono e urlano con il moccio che cola dal naso inseguendo un pallone o sono lì, davanti allo specchio a misurarsi il volume delle piccole tette e a rubare i primi rossetti dalla borsetta della mamma. Questi sono i nostri cuccioli, viziati e viziosi, simpatici e rompiballe. Infinitamente pieni di vita. Non c’è, dalle nostre parti, nessun sacerdote religioso o laico che possa modificare questa strada, per quanto consumistica e feroce, per quanto votata alla mediocrità e al menefreghismo. Non c’è nessuno che possa dire: “Prendi uno zainetto e uccidi”. Però, da altre parti, a qualche chilometro di distanza dal nostro orizzonte succede. A Gaziantep, città turca abitata da una numerosa comunità curda, è accaduto che il moccioso di dodici anni è stato inviato a festeggiare con la morte un matrimonio, manifestazione che inneggia anch’essa alla vita. E’ stato invitato in nome di un Dio sbagliato, un Dio che non riesce a comprendere che non esistono razze e non esistono colori. Che i curdi sono anch’essi un suo prodotto (sempre che questo Dio esista) e che l’odio severo e gli sguardi atroci verso questo popolo non costruisce il futuro. Perché di questo si tratta. I curdi combattono in Siria e in Iraq. Sono contro il fantomatico Stato Islamico. Sono insieme agli americani in questa battaglia sanguinaria e lunghissima dove Dio (qualsiasi Dio) c’entra davvero poco e gli interessi sono ben altri. Perché, allora, immolare sull’altare del martirio un cucciolo d’uomo? Perché distruggere la vita di un ragazzino per sopprimerne altre? Che guerra può essere quella in cui non c’è nessuna pietà per i vecchi e i bambini? Che idea vincente può essere quella che fa saltare in un giorno di gioia un gruppo di persone che avevano, anch’esse, il loro Dio? Quel bambino, quel cucciolo d’uomo, quel batuffolo ancora inerme, quel disegno appena abbozzato di un uomo ancora da costruire, è saltato in aria in nome di un Dio che non esiste. Non può esistere un Dio cattivo. Dobbiamo sempre costruire i nostri idoli sempre uguali alla nostra parte peggiore: iracondi, ingiusti, ciechi e odiosi. Un Dio che manda un bambino a farsi saltare in aria è un Dio che non vuole la vita. Perché sono gli uomini a disegnare questi scenari. Da sempre e per sempre. Quel bambino senza nome – di dodici anni – che ha costruito un massacro immenso in Turchia, non può essere sotterrato nel silenzio complice dell’Europa e del mondo. Gli schizzi di sangue sono arrivati anche dalle nostre parti. Dovremmo cominciare ad analizzarli con molta più serietà e attenzione.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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