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Inutile farsi illusioni: l’abbiamo persa la nostra battaglia contro il razzismo, contro i muri, contro il “fascismo” inteso come il fare un fascio di ogni erba. Siamo ormai una minoranza, troppo pochi per poter fronteggiare le soverchianti forze avversarie. Forze avversarie trasversali composte da piccoli amministratori che strizzano l’occhio al pregiudizio per consolidare il loro consenso e capitalizzarlo in vista di più ambiziosi traguardi politici; da frustrati cronici in cerca di comodi capri espiatori per trovare un perché ai loro fallimenti; da xenofobi di ogni ordine, grado e istruzione che, semplicemente, provano fastidio nel convivere con la diversità e trovarla seduta nel tavolino accanto al loro, nel bar del quartiere. Una rete troppo estesa, unita da interessi confluenti quanto evanescenti, perché la si possa fronteggiare col buon senso.
Devo ammettere, ricordando Gaber, che “la mia generazione ha perso”. La mia generazione, quella dei quarantenni o poco più, che non ha saputo gestire quella che già vent’anni fa avvertiva come una minaccia. Da quando, tornando al 1998, Frankie Hi Nrg menzionava “quelli che vorrebbero dare fuoco ad ogni zingara” nella sua celebre “Quelli che benpensano”. Sardegnablogger ha compiuto quattro anni una settimana fa, ma non c’è stato alcun festeggiamento. Avrete notato una certa stanchezza nel ritmo della nostra produzione, la cui intensità è innegabilmente diminuita. È un calo fisiologico, dopo quattro anni di grande impegno, ma io credo sia anche subentrata una sorta di rassegnazione nel constatare l’improduttività di alcune campagne civili: quella contro il razzismo, sposata da Sardegnablogger con grande tenacia, è una di queste. Non serve illustrare le dinamiche sociali, elencare dati, ricordare la storia per spiegare che le migrazioni sono una realtà millenaria, non un’emergenza del nostro tempo. Contro l’odio verso lo straniero, non serve a nulla.
Nei giorni scorsi mi sono soffermato sulla bacheca Facebook dell’amministratrice di un piccolo Comune sardo, stupito dal martellante ritmo dei suoi post contro l’immigrazione. Un piccolo Comune dell’entroterra per il quale l’immigrazione non rappresenta minimamente un problema, il che ha acuito il mio stupore. Non messaggi volgari e sguaiati, ma la reiterazione in varie forme e con toni soft di uno stesso concetto: l’immigrato ci toglie risorse, spazio, lavoro e ci costringe a cercarlo, a nostra volta, altrove. Sono sbottato quando, in uno di questi post, si è insinuato che l’emigrazione sarda dei nostri giorni sia conseguenza della immigrazione dall’Africa, che riduce il mercato del lavoro. Troppo facile replicare che che non c’erano africani in viaggio nel Mediterraneo sulle bagnarole quando, tra il 1955 e il 1971, quattrocentomila sardi lasciarono l’Isola per cercare lavoro altrove. L’emigrazione sarda è un fenomeno secolare, sostenere oggi che sia la conseguenza degli sbarchi è una vergognosa mistificazione. Facile replicare, ma inutile: le armate xenofobe (se dici razziste si offendono) ti vengono a cercare, ti aggrediscono, con argomenti deboli ma con la bava alla bocca. E sono talmente tanti che, alla fine, non si ha né il tempo, né la forza fisica per controbattere a ciascuno di loro. L’antirazzismo è un lavoro a tempo pieno, ma tutto il tempo disponibile non basta e si ha diritto anche alla stanchezza. Ecco qual è l’origine della nostra rassegnazione.
Il caso dell’amministratore del piccolo Comune che scrive post contro l’immigrazione mi è parso però significativo, proprio per il grande numero di incoraggiamenti e di reazioni ricevute. Risalendo ai profili di ciascuna di queste persone, si intuiscono le loro facoltà critiche, il loro modo di ragionare e, in definitiva, come l’odio e la diffidenza siano uno strumento politico importante. Dall’alto della poltrona istituzionale, chi rilascia simili messaggi legittima odio, diffidenza, un clima di ostilità verso tutto ciò che non ha un volto conosciuto. Mi torna in mente un vecchio contributo di Pasolini alla televisione di Stato, nel quale PPP concludeva che quella stessa televisione da cui stava parlando era lo strumento più antidemocratico del suo tempo: se lo dicono in televisione, dev’essere vero. Oggi lo stesso vale per il sindaco di paese, forte di un consenso popolare e comunque riferimento di una comunità. Se lo dice il sindaco, è vero e tutti siamo autorizzati ad esprimere un pensiero di cui pensavamo ci si dovesse vergognare. È una riformulazione del concetto secondo cui il politico deve dire alla gente quello che la gente vuole sentirsi dire. Con l’immigrazione questo metodo funziona benissimo. Il politico è abile nel tastare il polso della gente, nel captarne i bisogni e gli umori. Assecondando certi istinti, accresce la sua leadership e la percezione che, sì, quello dell’immigrazione è un serio problema. Anche in un paesino di poche centinaia di residenti che di immigrazione sente parlare perlopiù dalle cronache televisive. Nello stesso tempo, parla d’altro: non di reali argomenti critici della comunità, ma pone al centro del dibattito questioni marginali che però calamitano la discussione sviandola da temi più centrali quali l’urbanistica, il decoro urbano, l’assistenza, il lavoro. Anzi, il lavoro no: si può sempre dire che manchi perché se lo prendono, per due soldi, gli immigrati.
Questi post hanno sempre un grande successo e raccolgono una marea di like. Un po’ come capitava a quel ragazzo siciliano che, lo scorso anno, è stato denunciato perché nel suo blog pubblicava una valanga di bufale a contenuto razzista, inventate di sana pianta. Con i proventi dei click ci viveva, così numeroso era il suo seguito virtuale. Migliaia di condivisioni, in bacheche di gente incapace di verificare l’attendibilità delle informazioni o, semplicemente, confortata nel leggere notizie che confermavano i propri pregiudizi. Se questa rete diventa istituzionale – nel senso che gli amministratori ne diventano gli snodi attraverso la loro comunicazione social – è chiaro che il razzismo diventa un fenomeno dilagante, non più arginabile. Abbiamo perso, non possiamo farci nulla. Gli immigrati sono un’emergenza e il loro arrivo va accolto con lanci di olio bollente e di dardi infuocati, perché sono una minaccia per la nostra civiltà, per il nostro lavoro, per le nostre donne: il messaggio è questo e sempre più sarà questo. Sempre più il dissenso sarà soffocato da un coro di buuu, di giorno in giorno più sovrastante sugli inviti alla fratellanza. Stamattina, un amico mi ha raccontato la sua peripezia con una società di consulenza scovata su internet, da cui aveva avuto la garanzia di ottenere fondi europei per la sua attività previo pagamento di una quota fissa d’iscrizione di 600 euro. La società, in realtà, era finta, nel senso che non forniva alcuna delle prestazioni promesse. Cosicché il mio amico si è ritrovato raggirato, ma con in mano la fattura per la sua iscrizione. Quest’anno, la finta società ha già emesso oltre 1300 di queste ricevute fiscali: moltiplicatele per 600 euro e otterrete una cifra di circa 800 mila euro, raggranellata attraverso una truffa. Peraltro difficile da dimostrare e perseguire per mancanza di riferimenti e appigli inoppugnabili, mi spiegava il mio amico. Nei giorni scorsi, ho pubblicato su Sardegnablogger un post in cui riassumevo la storia della più gigantesca truffa compiuta da un finanziere alla comunità mondiale: 65 miliardi di dollari scippati a investitori di tutto il mondo attraverso un elementare schema Ponzi orchestrato da Bernie Madoff, finito poi in carcere dopo avere rovinato migliaia di persone. Il post ha avuto una manciata di like e tre commenti, un millesimo del vespaio provocato da un qualunque post sui migranti. Eppure, quanto danno ha provocato alle nostre tasche gente senza scrupoli come Madoff e quanto, invece, i disperati raccolti a Lampedusa? Vi cito questi due esempi perché quel che ogni giorno danneggia realmente la nostra vita sono, molto più dei migranti, truffe, raggiri e bisogni indotti che ci sottraggono tempo e risorse. Ma il sistema comprende, nella sua struttura, anche le fregatura camuffate da una patina di apparente rispettabilità. Sono eteree, inafferrabili, offrono meno bersaglio e destano meno clamore. Il migrante, invece, cammina scalzo per le strade evocando ancestrali paure di miseria, cucina cibi per noi puzzolenti in tuguri occupati oltre ogni limite di capienza sostenibile, ha donne bardate in maniera per noi inconcepibile, si arrangia vivendo di espedienti, magari oltre il limite della legalità, vuole il wifi e una vita felice. Suscita nei meno tolleranti una repulsione visibile e fisicamente tangibile su cui, chi gestisce i canali dell’odio, può speculare senza rischi, magari costruendoci sopra carriere. Purtroppo è un processo inarrestabile e ogni forza contraria è destinata ad essere sconfitta. Ma le battaglia si combattono anche per coscienza e dignità, anche quando la disfatta appare certa. La resa ci renderebbe complici.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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