E già lo so che fu grande nella “Casa Russia” e che soltanto Brian De Palma ne valorizzò la grandezza attoriale e bla bla bla, però, non stiano a romperci le palle con il politically correct, lui si chiamava soprattutto Bond, James Bond. Mi spiego meglio prendendola alla lontana. A me non è che non mi è dispiaciuto – cos’era, il 2017? – quando è morto Roger Moore. Cioè, alla Tv dei Ragazzi io lo seguivo volentieri in Ivanhoe. Mi piaceva di più Rin Tin Tin se vogliamo, lo giudicavo più arguto ed espressivo, ma anche Moore mi era abbastanza simpatico. Un buon giudizio ne trassi anche per le poche puntate di “Attenti a quei due” in cui lo avevo visto insieme a Tony Curtis. Ero già grande allora, in casa con la televisione ci stavo poco, ma fu sufficiente per provare benevolenza e comprensione nei confronti di questo ciuffo biondo messo a gemellare con un mostro come Curtis che quando ti riguardi “A qualcuno piace caldo” di Wilder ancora ti chiedi se sia più bravo lui o Jack Lemmon. Insomma, non ero troppo prevenuto quando lo rividi nei panni di James Bond, tipo nel ’73 o nel ’74, in “Agente 007 – Vivi e lascia morire”. Al cinema Moderno di Sassari, se ricordo bene. E quando dopo qualche esitazione iniziale disse finalmente il topico “Mi chiamo Bond, James Bond” , mormorai tra me e me: “E vai e lasciami un paio di coglioni!”. Poi mi accorsi che non era tanto tra me e me perché in sala molti si voltarono severi, però dopo più di dieci anni di Sean Connery, insomma, uno i confronti li fa anche se non vorrebbe. Ve lo dico perché ora la notizia della morte di Sean Connery mi colpisce assai più di quella di Ivanhoe Moore. Comincio a leggere nelle necrologie d’autore che è molto politically correct sorvolare sullo Scionbond e dilungarsi con intelligenza sull’altro Scionscion, quello dei film d’autore. Vabbé, lo farà qualcun altro, io posso soltanto dirvi che per me la data storica è il 5 ottobre del 1962, quando comparve sugli schermi il primo 007 tratto da Ian Fleming, “Dr. No”, arrivato in Italia con il titolo “Agente 007 – Licenza di uccidere”. Era lo 007 di Sean Connery, quello che nessuno degli emuli ha mai insidiato. Anche se devo dire che Daniel Craig no è buccia di ciogga. A me a suo tempo mi ha molto impressionato il seguente dialogo nel bar di “Casino Royale”. Bond-Craig. Un Vodka Martini! Barista. Agitato o mescolato? Bond-Craig. Che vuole che me ne freghi? Cioè, cavolo: una svolta che ha garantito la sopravvivenza di un mito appannato, nel dopo Connery, da tutti quei tentativi che Moira Orfei e Darix Togni li avrebbero pensati meglio. Io non è che sono uno di quelli che quando esce il film fanno il paragone con il libro. Sono cose diverse. Mi è capitato di assistere a trasposizioni fedelissime al libro che cinematograficamente o televisivamente parlando erano delle cagate celesti e a lavori che tradivano l’originale dall’inizio alla fine, e a metà se lo inchiappettavano pure, ma che nel loro prendere le distanze erano dei capolavori. Bond è una delle rare eccezioni. Se non tradisci troppo il sottofondo di assassino che respiri nella serie cartacea di Fleming, ti escono anche dei bei film. Così fece Connery, cinico quanto basta per lasciare trapelare la patriotica e spietata bestia da guerra fredda che è il fondamento del mito. Poi Connery minacciò di mollare e i produttori chiamarono tale George Lazenby, che in “Al servizio segreto di sua maestà” tentò di riportare 007 alla sua letteraria cupezza primigenia. Cioè, l’idea poteva anche essere buona. Ma Lazenby aveva la stessa agilità espressiva di quel pastorello orante del presepio che contempla la cometa e dentro i suoi occhi, anziché lo scuro e sorridente annuncio di Madama Morte, ci leggevi la domanda: “Ma ora dove cazzo sono, esattamente?”. Così si ritornò a Sean Connery e, quando lui mollò ancora, la serie non perse uno spettatore. Boh, io non capisco. E’ vero che anch’io sono un bondiano fedele e non mi perdo un film chiunque lo interpreti, però che uno come Moore sia riuscito a fare sopravvivere il personaggio, mah. Cioè, faceva il pagliaccio anziché la spia. Che dire poi di Timothy Dalton? Apprezzabile il suo sforzo, reso però arduo dal fatto che ha probabilmente studiato con il metodo Stanislavskij usando un portaombrelli come modello espressivo. Devo aggiungere che in vecchiaia anche Timoteo ha trovato un suo perché, infatti nella fiction horror Penny Dreadful lui ed Eva Green se la cavano alla grande. In quanto a Pierce Brosnan io l’ho molto ammirato nella commedia “Non buttiamoci giù” di Pascal Chaumeil (tratto dal best seller di Nick Hornby) e nel dolceamaro “Love is all you need”, di Susanne Bier. Dice, e cosa c’entra con 007? Nulla. E’ che non voglio parlarne male. E ora Daniel Craig, un’iniezione di gerovital per il vecchio Bond. Prima di tutto ripetendo, ma con successo, l’esperimento tentato con Lazenby, cioè quello di recuperare l’uomo di Fleming cupo e disperato, in fondo un po’ rozzo. La vera ironia di Bond, insomma. Che non è quella tagliente di Connery, comunque insuperata, ma un sorriso acido, doloroso e sporco di sangue. E poi il salto nella modernità. Ma volete che un Bond raffinato buongustaio riesca ancora a impressionare qualcuno nel mondo di Master Chef? Altro che agitato o mescolato. E ti dico che non me ne frega niente giusto per non mandarti affanculo, visto che ho la licenza di uccidere.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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