Ieri sono entrato nel capannone di un artigiano, in un centro della Gallura. Mentre il titolare mi mostrava le lavorazioni in corso mi sono fermato davanti alla postazione di uno dei suoi operai, un senegalese di mezza età. Poche battute, poi ci siamo spostati. “Sai che lui e altri suoi connazionali con cittadinanza italiana hanno votato per Salvini, alle regionali? Si sono proprio passati la voce e sono andati a votare per Salvini”. Sono rimasto sorpreso e non ho avuto bisogno di formulare domande perché arrivasse la spiegazione. Sarebbe questa: l’operaio senegalese e quegli altri suoi connazionali hanno ormai una posizione lavorativa stabile e un’integrazione piena in Italia. Per loro, migliaia di persone che arrivano in cerca di lavoro sui barconi,, attraversando il Mediterraneo, sono una minaccia, molto di più di quanto realmente lo sia per gli xenofobi e i razzisti di casa nostra. Gente che si potrebbe offrire per poco rischia di mettere in pericolo quanto, tra stipendi e diritti, hanno costruito col sudore in tanti anni di immigrazione. E quindi la dialettica si sposta dal fronte cromatico bianco/nero, passando al fronte “chi ha e non vuole perderlo” contro “chi non ha e vorrebbe averlo”. Chi studia dirà, a ragione, che non si può mettere a sistema un singolo caso. Io infatti non ne faccio una regola generale: segnalo semplicemente una tendenza che, mi si dice, sarebbe peraltro estesa anche ad altre realtà di immigrati di vecchia data, ormai cittadini italiani a tutti gli effetti. Una guerra tra poveri che taglia a fette radici, percorsi comuni e affinità culturali. “Se anche gli africani non vogliono l’immigrazione si possono accusare di razzismo tutti coloro che non la vogliono?”, domanderà sarcasticamente qualcuno. Troppo facile rispondere che le battaglie per una società aperta non si conducono solo contro il razzismo, ma contro ogni sorta di preclusione alla possibilità che chi ha meno possa guadagnarsi una vita dignitosa. In ogni caso, questo contribuisce a spiegare perché il messaggio universale leghista arrivi ovunque, anche dove non ce lo saremmo aspettato. Anche sotto le sembianze di una forma di integrazione verso il pensiero dominante.
A me sembra proprio che questo singolo aspetto sia indice di una globalizzazione del voto.che neutralizza gli aspetti locali. Se guardate alle percentuali ottenute dalle due principali coalizioni in Sardegna, le troverete praticamente identiche a quelle delle regionali in Abruzzo, due settimane fa. Passano quei tre o quattro concetti mainstream, oltre le specificità dei luoghi. Salvini aveva detto che avrebbe risolto il problema del latte in 48 ore e poi, nell’ultimo comizio cagliaritano, tentato una spericolata apertura al nucleare. Nonostante la scadenza nella vertenza pastori sia stata abbondantemente superata senza risultati e nonostante l’invito a non dire no alle centrali pronunciato dal ministro, la sua coalizione ha stravinto. Una globalizzazione del voto che ha spazzato via l’area indipendentista, molto più di quanto dicano i numeri. Divisi, mal consigliati da intellettuali spocchiosi che hanno ereditato l’arroganza di certa sinistra salottiera, gli indipendentisti sono tuttavia un ingrediente importante del nostro scenario politico. Perché i loro programmi guardano alle peculiarità della Sardegna mettendo insieme conoscenze reali e prospettive plausibili, interpretate da intelligenze superiori come quelle di Andrea Murgia e Paolo Maninchedda. Vederli ridotti ai minimi termini è un pessimo segnale.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
16marzo1978: il giorno in cui persi l’innocenza. (di Giampaolo Cassitta)
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