L’ultima volta che sono stato a pranzo dai miei zii era una domenica d’autunno e, come sempre, al tavolo tondo c’erano anche i miei genitori. Non so come, ma ad un certo punto siamo finiti a parlare di una storia che mio padre mi aveva raccontato più volte. Ho fatto cadere io, di proposito, la conversazione su quel fatto, perché volevo che lo si rievocasse anche davanti alla sorella e al fratello. Forse per confrontare i loro ricordi, forse per trovare conferma alla versione dei fatti che avevo letto in un articolo su un almanacco, a firma di Manlio Brigaglia. Il vino di zio Mario era buono (“Senza trattamenti” puntualizza sempre, anche se nessuno glielo chiede) e zia Candida sa il fatto suo quando si tratta di arrostire un capretto: per toccare la felicità mancava solo una bella storia del passato, raschiata dal fondo della memoria, di quelle che più invecchio e più mi piacciono. Babbo inizia il suo racconto, zia Candida conferma qualche particolare, zio Mario ascolta e basta: era troppo piccolo perché possa sapere.
Nell’estate del 1943 mio padre aveva quattro anni, zia Candida tre e zio Mario era poco più che un neonato. Babbo dice che stava in un campo per la mietitura, non ricorda se dell’orzo o del grano. Ad un certo punto sentì un rombo mostruoso, come se il cielo gli stesse crollando addosso, drizzò la testa e vide l’aereo attraversare l’aria, seguito da una scia di fumo densa, che man mano si diradava. “Lana appena cardata”, la descrisse nel suo articolo il professor Brigaglia. Babbo aveva quattro anni, ma ha una sequenza di quei momenti stampata nel cervello. L’aereo era un bombardiere inglese ed era stato centrato dalla contraerea, a La Maddalena. Come un uccello sanguinante, proseguì la sua traiettoria inoltrandosi nell’entroterra della Gallura e sorvolando la testa di babbo, in agro di Luogosanto, ad una trentina di chilometri dall’arcipelago. Con lo stupore di un bambino nato nella sperduta campagna di Chivoni e che poco mondo conosceva, il piccolo Angelo Giorgioni seguì la parabola del bombardiere e infine notò come dei piccoli puntini proiettati all’esterno dalla sua cabina. Erano gli uomini dell’equipaggio che cercavano di mettersi in salvo lanciandosi con i paracadute. La carcassa dell’aereo si frantumò al suolo nei pressi della chiesa campestre di Santu Malcu, in regione Lu Sfussatu, qualche chilometro sotto Luogosanto. Oggi, da quelle parti, ci sono le scintillanti cantine di Siddura e i suoi vigneti. Nei dintorni dei rottami fumanti planò anche uno degli avieri sfuggiti al disastro. Ora mio padre parla per sentito dire, mettendo assieme le testimonianze di chi era presente. Il militare inglese venne attorniato da un gruppo di abitanti della zona. Li vide avanzare verso di sé, si sentì minacciato e alzò istintivamente le mani. Non era ancora l’8 settembre e quell’inglese era un nemico. Però aveva le braccia dritte al cielo, in segno di resa. Tra quelli delle campagne circostanti che erano accorsi sul luogo dello schianto, uno aveva con sé un fucile. Non ebbe pietà. Sparò all’aviere fulminandolo, spegnendo in un istante la vita di un uomo inerme, mandato alla guerra in terra straniera. Quando mio padre me lo racconta, torna il bambino di quattro anni sorpreso dall’aereo in fiamme sul cielo di Luogosanto. Il volto si incupisce di indignazione e orrore, esattamente gli stessi di un bambino cui descrivano la morte di un uomo per mano di un altro uomo. Mi resta un’ultima curioisità. Vorrei sapere che ne sia stato di quel cadavere, se qualcuno gli abbia concesso sepoltura, se la salma sia stata riportata nel Regno Unito. Ma nessuno lo sa, mentre tutti sanno il nome dell’uomo che ha ucciso. Però nessuno azzarda giudizi o condanne, perché l’esasperazione portata da quel tempo di bombardamenti e privazioni era tale da spiegare quasi ogni delitto. Zio Mario ricorda di un soldato ucciso a fucilate da un abitante dello stazzo, perché sorpreso a far man bassa di fichi maturi nel frutteto. Brutta bestia, la fame.
La televisione è rimasta spenta per tutto il pranzo. Con la sola luce delle parole i miei vecchi avevano proiettavato quel film di settantadue anni fa. Non c’è un motivo particolare per il quale io vi abbia raccontato questa storia, se non uno. Se un significato possono avere queste feste sempre più svuotate di senso, è nel recupero della memoria. Specie quella più remota, affidata alla parola dei più anziani. Ascoltarli è il miglior regalo che si possa far loro, ma anche a noi stessi.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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