Temo che dietro l’offesa, dietro il grave scivolone del giornalista di Repubblica, vi sia la presenza di un altro stereotipo che ormai è passato ed è entrato nell’immaginario collettivo comune. Sono stereotipi che affondano le loro radici in una egemonia culturale che tende a denigrare le società marginali: quando nacque il malessere delle zone interne, che affondava le sue ragioni nelle trasformazioni del regime fondiario dell’800, si preferì inventare una razza delinquenziale piuttosto che ammettere di aver gestito in modo maldestro e disonesto la fase di transizione da una economia di sussistenza a quella di mercato, e di aver razziato risorse per i centri di potere mercantili del nord Italia, si pensi ai boschi, e aver trasformato una economia da integrata a monoculturale. L’idea di una Sardegna aspra e matrigna venne coltivata, nel dopoguerra, anche da una parte consistente dell’intellighenzia sarda, con lo scopo di giustificare, mediante il determinismo geografico, l’arretratezza e le intemperanze delle zone interne. Si cercava di ammorbidire il razzismo nei confronti dei sardi riconoscendo, però, in questo modo, il discorso egemone. Nello stesso tempo, sul piano politico, quel discorso di arretratezza serviva per richiamare aiuti e finanziamenti di varia natura. Il pregiudizio è avanzato al punto che oggi autorevoli esponenti delle varie istituzioni del paese sguazzano in un brodo di assurdi pregiudizi nei confronti dei sardi e dei barbaricini in particolare. Per cui per il generale siamo incestuosi e permalosi, vera causa delle malattie nei poligoni, per il giudice individualisti e rapinatori, per il riccone della Costa Smeralda un popolo di inadeguati governati da filosofaglia, per il giornalista picchiamo i figli, e così via. Il fatto è che, in modo più o meno mascherato, questi pregiudizi sono entrati nella mente di molti sardi, al punto da provocare complessi di inferiorità con fenomeni di vera e propria autoflagellazione. Tra tutti i pregiudizi forse quest’ultimo, emerso grazie all’uscita del giornalista di Repubblica, è forse il più sorprendente. Infatti sapevamo di essere un popolo di banditi, individualisti privi di capacità imprenditoriale, eccetera eccetera, ma che la Barbagia, altrove, fosse proverbiale per l’educazione violenta dei figli, forse non lo sapevamo. In realtà tutti quelli che conoscono la Barbagia direttamente o indirettamente sanno che il prototipo del genitore barbaricino può essere anche severo, ma difficilmente violento e propenso alle punizioni corporali, che vengono viste nel mondo tradizionale come sintomo di grave debolezza. Ci sono aspetti di sobrietà e austerità in Barbagia, ma noi sappiamo l’importanza che nel centro Sardegna, come in tutto il resto dell’isola del resto, hanno le feste, le bevute tra gli amici, lo scherzo e la burla, lo stare insieme, la socialità allegra e spensierata, il canto e il ballo. Mi sono domandato perché, allora? da dove nasce questo pregiudizio che, forse, neppure sapevamo di subire? Un generale contesto di Sardegna pittoresca, alimentato anche da una certa letteratura a caccia di un buon mercato, può aver predisposto il terreno ad un pregiudizio di questo tipo. Ma temo che, in questo contesto, molto abbia fatto il clamore suscitato, negli anni ’70, dall’uscita del romanzo di Gavino Ledda “Padre Padrone”. In quell’occasione l’autore raccontò una storia familiare, un romanzo di formazione, che in realtà poteva essere ambientato in qualunque altra parte del mondo. Ma dato che nel paese, in quegli anni, era in corso un’aspra lotta per i finanziamenti del Piano di Rinascita, una mole di soldi notevole, il romanzo venne utilizzato da un apparato trasversale per dipingere il mondo tradizionale sardo come scabroso e ignobile, e dunque non meritevole di essere ulteriormente alimentato. Una promozione pubblicitaria formidabile accompagnò così l’uscita del romanzo per la Feltrinelli, e la televisione di Stato ne fece presto uno sceneggiato di successo, mentre la favola del pastore analfabeta diventato “professore” faceva il giro di tutta la stampa quotidiana e periodica. Il racconto, infatti, narra della sofferenza di un bambino “diverso” dagli altri, costretto a subire violenze di ogni tipo da parte del padre che, tra le altre cose, gli aveva negato la possibilità di andare a scuola. L’autore, dunque, narrava lo scandalo di una diversità rispetto agli altri bambini. Ma l’egemonia culturale trasformò questa eccezione nella regola, dipingendo il mondo pastorale dell’epoca tutto, come violento e persino scabroso, a partire dalle fondamenta, dall’educazione dei figli. Michelangelo Pira spiegò presto che un padre così, incapace di farsi rispettare dal figlio, nel mondo pastorale sardo sarebbe stato disprezzato come un omuncolo da burla, ma ormai era troppo tardi. Grazie in particolare alla televisione, potentissimo mezzo di propaganda egemonico, nell’immaginario collettivo ormai era passata l’idea dei sardi duri e violenti con i figli, a cui non restava altro che dedicarsi alla zoofilia. Per fortuna ci avrebbe pensato lo Stato a risolvere tutto. Infatti il racconto è un processo di andata e ritorno nelle braccia dello Stato. Strappato dalle indegne mani paterne dalla scuola elementare, Gavino ritroverà la sua strada e l’agognato alfabeto grazie al servizio militare, e infine la completa redenzione grazie all’Università. Nel frattempo i cospicui finanziamenti del Piano finirono nelle casse di quella stessa classe imprenditoriale, in particola del nord Italia, che dettava e detta le regole della morale corrente, con la complicità della classe politica che vedeva nell’industria il copiaincolla di un modello di sviluppo vincente, oltre ai finanziamenti e al controllo della nascente classe operaia. Pochi ricordano che al titolo “Padre Padrone” fu aggiunto un sottotitolo, che in realtà non ci azzeccava nulla con la storia: “L’educazione di un pastore”, che voleva sottintendere una connotazione antropologica. Spesso dunque le scelte politiche, specie quelle strategiche per lo sviluppo, sono accompagnate da campagne propagandiste che le affiancano in modo da “preparare” l’opinione pubblica. Dietro il pregiudizio sui sardi che picchiano i bambini, in realtà, ci stanno flussi di finanziamento che nel passato hanno alimentato un modello di sviluppo forzoso e squilibrato. Anche senza voler accollare all’industria tutto il peso del fallimento di quel progetto, è realistico pensare che una visione meno pregiudiziale dell’economia pastorale sarda, con un progetto indirizzato verso la qualità e la diversificazione dei prodotti, con la creazione delle varie filiere integrate, avrebbe oggi consentito alle zone interne della Sardegna di sopravvivere e di avere di certo più voce in capitolo per combattere questi assurdi e ridicoli pregiudizi. Perché la tragedia più vera e più grande di tutta questa storia è che, in realtà, i bambini delle zone interne della Sardegna stanno scomparendo, insieme a moltissimi paesi, un tempo prosperi e attivi, che hanno visto dimezzare il loro numero di abitanti nel giro di 30 – 40 anni. E sicuramente non a causa di una cattiva educazione dei figli.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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