Era d’estate, come oggi, di questo sono certo. In quanto all’anno, boh, sarà stato il ’71, forse il ‘72. Immaginati comunque un clima ancora sessantottino e un tipo di una ventina d’anni, studente di Lettere a Cagliari, in vacanza per un paio di mesi a Milano. Ero sceso (come si dice per gli alberghi di lusso) alla casa dello studente di viale Romagna, che era una specie di quartier generale della sinistra giovanile. Dormivo lì. C’erano molte stanze vuote di compagni tornati a casa per l’estate. Magari non avevi la garanzia di dormire ogni notte nello stesso letto, però si stava bene. Ed era gratis. Per mangiare c’era la mensa. Non eccellente come era allora la mensa dello studente di Cagliari, ma a quell’età, tanto, di una gallina ti mangi anche le zampe e il becco e dopo ti lecchi i baffi, che allora tenevo lunghi per sembrare più grande. L’unico picco gastronomico di quei mesi milanesi lo ebbi al Caffè di piazza della Scala. C’era da poco la gestione Grassi del teatro più bello del mondo (dopo il Verdi di Sassari) e c’era una specie di stagione lirica estiva dove potevi vivere, pagando roba di trecento lire, cose storiche tipo la Cenerentola diretta da Abbado con la Berganza e Alva. In loggione. Se scendevi verso la platea, non era giro per spiantati come noi. Con il mio amico Lello, più grande di me e a un passo dalla laurea in Ingegneria, spesso facevamo la fila lungo la sbarra di ottone lucido lucido che correva all’esterno del tempio sino alla porta del loggione. Aprivano alle otto di sera ma se volevi trovare una poltroncina era meglio se ti mettevi in coda a mezzogiorno. Quando veniva fame, c’era il patto tacito tra i codaioli che potevi staccarti un momento, senza che ti fregassero il posto, per andare al bar lì accanto. E per poche lire ti davano certi panini con prosciutto, burro e acciughe buoni e incerti come i ricordi e se tentavi di spegnere la sete con il vino sfuso, all’opera cominciavi a surragare al preludio e ti svegliavi quando il personale delle pulizie ti buttava fuori. A me però non è mai successo. Una volta mangiai bene anche da un’altra parte. Un’altra mensa, quella di non so più quale facoltà, roba scientifica però. Doveva essere quella di Lello. Dice che era la mensa migliore di Milano. Eravamo in cinque o sei a un tavolo lungo. Uno era Mario Capanna. E io mi ero accorto che era un leader perché aveva un’abitudine che in quell’ambiente e a quell’età avevamo in pochi: stava a sentire. Assimilava con straordinario scrupolo qualsiasi opinione e qualsiasi informazione, persino le mie sconclusionate chiacchiere su Sassari e su Cagliari e sul rapporto tra Pci e sinistra extraparlamentare. Accanto c’era un altro tavolo con un gruppo di grossi e truci che stavano sempre zitti e si guardavano sempre intorno. Erano katanga, il servizio d’ordine del Movimento Studentesco. Quella, in particolare, doveva essere la guardia del corpo del capo. Non si scimmiottavano i riti del potere, c’era davvero bisogno, da quelle parti, di una piccola milizia. I fascisti lì non scherzavano. Mi portarono a vedere quelli di San Babila, come in un sightseeing. Mancava solo il pullman scoperto. Facce da bestie di zoo privato. Stavano in gabbia ma quando li sguinzagliavano sapevano di avere alla spalle gente potente che li proteggeva. Io conoscevo soltanto i fascisti nostrani. Questi erano peggio. Razzisti e classisti, a esempio, mentre i sassaresi cercavano di darsi una patina di movimento sociale. La violenza dei sanbabilini era fine a se stessa. Un compagno sardo che li aveva affrontati mi raccontò che sembravano godere anche quando ne buscavano, purché ci fosse sangue. Una volta uno di loro gli disse, catena in mano, “Non so se è peggio che sei rosso o sardignolo”. Insomma, tu pensavi che katanga, catene e altra roba così servissero soltanto per questi stronzi che tra un po’ sarebbero diventati paninari o terroristi neri. Poi un notte, alla casa dello studente di viale Romagna, mi accadde una cosa che me ne fece capire molte altre. Era notte fonda quando venni svegliato da urla, rumore di vetri infranti e, insomma, dal chiasso di una rissa alla grande. Corsi giù all’atrio per dare una mano contro i fascisti che certamente volevano fare irruzione. Non avevo troppo entusiasmo, ero un po’ cagato, anzi, ma ancora più preoccupato dal rischio di farmi una fama da codardo che certamente da Milano mi avrebbe raggiunto a Cagliari e a Sassari. Nell’atrio un tale mi mise una mano sul petto -Torna in camera. -Ma… i fascisti… -Niente fasci. Torna in camera. E mi accorsi che mentre i suoi compagni si azzuffavano sul marciapiede contro misteriosi nemici, il suo unico compito era quello di stare alla fine delle scale per fare tornare alle camere tutti quelli che scendevano per dare un mano. L’indomani uscii molto presto e vidi sul marciapiedi, tra le aiuole, due grandi macchie di sangue coperte dai vetri rotti di macchine e portoni. Chiesi cos’era successo e uno, non capii bene se con imbarazzo o con fastidio, mi rispose soltanto facendo il nome di un’organizzazione della sinistra. Capii tutto. Non c’era buon sangue tra Movimento Studentesco, gruppi marxisti-leninisti, operaisti, “spontaneisti”, trotskisti. Cazzo, ma quello era sangue. Sangue di compagni. Poco dopo cominciai a lavorare come giornalista ed ebbi quindi un validissimo motivo per abbandonare la militanza politica. In quanto alle mie opinioni personali, mi avvicinai al Pci e i miei vari capi mi rimproveravano perché dice che quando scrivevo non lo nascondevo poi tanto. Ma non so quanto il posto di lavoro fosse un alibi e quanto fosse quel sangue di viale Romagna il vero motivo del mio rapido abbandono delle sedi fumose con i ritratti appesi tutti in fila di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao. Con Enver Hoxha aggiunto o tolto insieme a Lin Piao a seconda di come buttava in quanto a lotte di potere. Ci penso ancora a quel sangue ora che l’unità della sinistra sarebbe l’unica salvezza contro il fascismo che avanza. Però quelle macchie di sangue di viale Romagna non sono mai riuscito a cancellarle neppure con anni e anni di studio ragionato su socialismo rivoluzionario e riformista o sulla scissione di Livorno. Era sangue nostro versato da noi. E’ il nostro peccato originale. Boh, non disperiamoci, in fondo i cristiani sono riusciti a cancellare il loro. Ma per adesso a battezzarci ci sta pensando Salvini.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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