Qualche giorno fa, a proposito di furore, ho scritto un articolo crassamente comico in cui prendevo in giro, con un linguaggio a tratti scurrile, la decisione di impiegare alcuni termini al femminile -nei documenti ufficiali della Regione- per indicare incarichi o professioni che fossero svolti da donne (sindaca, assessora ecc). Ironizzavo in modo intenzionalmente sguaiato contro una decisione che trovo assurda, e per farlo utilizzavo, perculando chi invece era d’accordo, una serie di termini maschili trasformati in femminili, per mostrare quanto siano cacofonici. Per quell’articolo ho ricevuto insulti pesanti (ignorante, maschilista; qualcuno mi ha detto che ero peggio di Trump) da parte di persone che hanno preso il mio dileggio per sessismo. In realtà, ma non ho replicato a nessuno e lo dico oggi per la prima volta, la questione squisitamente di genere per me non era centrale. Lo era invece la questione linguistica e il mio sberleffo era per la forzatura burocratica nei confronti delle parole, non per i diritti delle donne. Prendevo in giro il furore contro la lingua, non altro. Lo stesso furore che mi è sembrato di intravvedere oggi, ancora una volta tra le pieghe di una burocrazia, a proposito del possibile abbandono dell’Inglese come lingua ufficiale dell’Unione europea. La Hubner (presidente della commissione affari costituzionali a Strasburgo) dice che con la Brexit è uscito dalla UE l’unico paese che aveva l’inglese come lingua ufficiale. Quindi ora è necessario che altre lingue ufficiali “interne” all’Unione, prendano quel posto. Italiano? Tedesco? Francese? Non si sa. Chiaramente tutti sanno che negli scambi non ufficiali si continuerà a usare l’inglese ma, appunto per una specie di furore, si intende sancire un nuovo quadro istituzionale (l’uscita del Regno Unito) intervenendo forzosamente sulla lingua parlata in quel quadro. Ma la lingua ha a che fare con i presupposti, col terreno d’appoggio di quel quadro e di chi lo vorrebbe normare. E la lingua non è un oggetto. La lingua è un habitat, un contesto, un ecosistema, una forma di vita complessa, e usare la legge ordinaria (o un regolamento) per normare la lingua è come pretendere di sollevare sé stessi da terra tirandosi per le orecchie o per i lacci delle scarpe. L’uso di una lingua e delle sue parole non è un accidente, un dettaglio di una certa comunità, ma è quella stessa comunità. Una coincidenza curiosa: in entrambi i casi (l’uso di “sindaca” nei documenti della Regione e l’abbandono dell’Inglese come lingua delle istituzioni UE) c’è una corsa all’ingessamento che utilizza come schermo il termine “ufficiale”, ossia “degli uffici” intesi come “funzioni, doveri, incarichi”. Isidoro di Siviglia scrisse quindici secoli fa: “Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt”, che più o meno vorrebbe dire che dalle lingue nascono i popoli, non, dai popoli, le lingue. Non so se sia vero, ma è evocativo. Sembra rimandare a una verità profonda, a principi che hanno a che fare con le origini. Spostare una lingua (che sarebbe l’uso della lingua) e costringerla fino al ciglio dell’ufficialità a me sembra una forzatura destinata all’insuccesso, come tutti gli argini contro fenomeni epocali o relativi a più grandi contesti (vale anche per le barriere contro i migranti, o per i canali tombati per controllare la pioggia). Non dico che non sarà possibile dire “sindaca” o fare le interrogazioni in tedesco, credo solo che si dovrà farlo al chiuso di un “ufficio”.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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