E’ morto il 15 aprile di cinquant’anni fa e Totò ancora fa paura a chi ha paura di ridere. Ma avete letto che cosa si scrive di lui? Che il vero Totò è nei tre film di Pasolini. Che l’anima sua nascosta è in certi cammei degli altri pochi registi “seri” che se lo sono presi in carico. Che chissà quale capolavoro sarebbe stato Giulietta degli Spiriti se Fellini fosse riuscito a scritturarlo. Che la Mandragora di Lattuada scopre la vera maschera. Che a rivelare il suo animo è stato Rossellini con Dov’è la libertà. Ma quelli che scrivono queste cose ci sono mai andati al cinema? Nei veri cinema, quelli dove la puzza delle sigarette resterà sempre anche se ora non si può fumare e le bucce dei semi di zucca sono ancora piccole anime vaganti, munacielli dispettosi, fantasmini nati nel fascio fumoso di luce che parte dalla cabina di proiezione, sorvola le teste e si spalma sul telone. La critica che non lo ha esaltato a suo tempo, per “riscoprirlo” deve depurarlo del suo feroce qualunquismo, così vero e diverso dagli antipartito di oggi, deve farne la musa di Pasolini, la Beatrice spettrale di alcuni Alighieri altrettanto spettrali. Ma siete mai entrati al Rex o allo Smeraldo, nel quartiere del Monte Rosello di Sassari? I cinema più a buon mercato degli anni Cinquanta e Sessanta, dove potevi goderti in seconda visione e a prezzi stracciati i film che l’anno prima al Verdi o all’Ariston o al Moderno costavano di più. Lo conoscete il pubblico di Totò che non si vergogna di ridere, come molti di voi che sono perciò tanto antipatici? Totò era la comicità vera, quella che diffida del potere anche se infine gli frega i soldi, era in sintonia con il pubblico delle sale più povere, che condividevano con lui le radici del rione Sanità. Guardate Totò, riscoprite il teatro di Petito, di Scarpetta e dei De Filippo (tutti e due, non solo il nobile Eduardo ma anche il grande, enorme Peppino) e capirete quella trama sociale che attraversa un superbo spettacolo italiano in tutte le sue infinite lingue. Ora fa tanto chic ridere della lettera che Totò detta a Peppino e certi intellettuali più furbi la sanno a memoria e la citano per mostrarsi trendy. Ma non ci fottono. Non ci credono alla genuina comicità di quella lettera. Strizzano l’occhio a quel pubblico ma non funziona. Quelli che hanno il diritto di citarla sono gli spettatori che l’hanno apprezzata al suo primo apparire, al Rex e allo Smeraldo. Quelli che la versione in prosa dei seguenti versi la sanno fare bene: Perciò, stamme a ssenti… nun fa’ ‘o restivo, suppuorteme vicino – che te ‘mporta? Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo â morte!
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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