Per un paio d’anni, molto tempo fa, ho lavorato nella redazione di Olbia del Giornale di Sardegna. Stavamo dentro un appartamento al secondo piano, in una palazzina di via Roma. Se mi affacciavo sul terrazzino per prendere una boccata d’aria, di fronte a me avevo le case popolari e, sulla sinistra, un pezzetto dello stadio Nespoli. Tra un blocco e l’altro delle case popolari intravedevo il mare del golfo, che s’insinuava profondamente nel cuore della città. Di notte, a quei tempi, quella zona di Olbia era tutto un viavai di prostitute straniere. Stavano anche sotto il portone della redazione, oppure passeggiavano avanti e indietro nel marciapiede di fronte. Erano nigeriane, albanesi, romene. Alcune era senz’altro minorenni. Nelle notti d’inverno io le vedevo strette nei loro giubbotti, ma con le gambe lasciate scoperte da minigonne quasi invisibili. Certe volte si scaldavano stando abbracciate le une alle altre. Una volta una la intervistai e poi le offrii un quarto di capricciosa: al pianterreno della palazzina c’era anche un posto dove vendevano pizze al taglio che restava aperto fino a tardi. Quando me ne andavo, alla fine del lavoro, ci salutavamo sempre. Ridevano come ragazzine e io le trovavo inspiegabilmente felici. Naturalmente, mi capitava di vedere anche i clienti che le andavano a cercare. E qualche volta erano persone che conoscevo, venute dai paesi per una notte di sesso. Non ne ero sorpreso, più o meno quelli dei paesi che andavano a prostitute li si conosceva tutti.
Molti anni dopo, alcuni di quei clienti di prostitute mi capita di incrociarli su Facebook. E la cosa che non riesco a spiegarmi è che le loro bacheche sono invase dagli slogan #stopinvasione o #chiudeteiporti, oltreché da manifestazioni di razzismo viscerale.
Forse sono ancora arrabbiati per le tariffe oppure, molti anni dopo, hanno raggiunto la pace dei sensi e di quel particolare aspetto dell’immigrazione non sentono più l’ormonale bisogno.
Io credo siano coscienti di essere stati una concausa dell’invasione che oggi contestano. Ma non credo che quegli slogan servano oggi a lavare la coscienza sporca di ieri. Credo che portarsi sul sedile di un’auto una prostituta straniera sia una naturale declinazione del loro razzismo. Non sono donne, ma strumenti che servono per soddisfare bisogni primari e, per giunta, pretendono pure di essere pagate. Esseri inferiori che non hanno diritto alla dignità.
Quando ho fatto il militare, ho avuto per qualche tempo come superiore un ufficiale toscano. Era un colosso di quasi due metri che sollevava 180 chili sulla panca piana. Parlava un italiano perfetto, d’altri tempi, ricco di citazioni e aforismi, stando ben attento a non cadere mai nella volgarità gratuita. L’unica volta che lo sentii pronunciare una frase fuori posto, derogando a quella sua prosa impeccabile, fu quando vide uno dei miei commilitoni arrancare in una prova atletica: dovevamo arrampicarci su una parete e poi raggiungerne un’altra, spostandoci sospesi a degli anelli appesi alle travi. “Se lei deve scoparsi una negra su un albero è fottuto!”, urlò ridendo. Parlo di più di vent’anni fa. Il razzismo c’è sempre stato, non è una scoperta recente, e io l’ho sempre colto anche in questo modo degradato di vedere le donne. È un modo per giustificare il diritto di disporre di un corpo umano a piacimento: usandolo per i propri comodi, oppure sferrandogli un calcio in culo e rispedendolo lontano se non serve, quando occupa solo spazio e respira la nostra stessa aria.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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