Oggi ho mangiato il passato di verdure con un cucchiaino perché non avevo cucchiai puliti e la fame era talmente feroce da non lasciare altri spazi di manovra se non quello di spalancare le fauci ed ingurgitare del cibo. – Laverò tutto dopo pranzo – mi sono detta. Ma poi mi sono smarrita nella lettura di editoriali e articoli qua e là in rete ed il tempo si è annullato. Non sono una brava padrona di casa, ne sono consapevole, rimando faccende domestiche che dovrebbero essere oggettivamente impellenti per dedicarmi a passatempi che, nella mia lista di priorità, si collocano invece ai primi posti. Ed ecco che davanti a qualcosa di interessante da leggere, a un bel film o altre situazioni allettanti la pila di piatti nel lavello o l’asse da stiro possono attendere. Questo per dire che ora sono le 18.15 ed io, dopo aver letto un editoriale dal quale dissento fortemente, non posso trattenermi dal pronunciarmi. E i piatti giacciono ancora dov’erano, sporchi com’erano prima di pranzo.
Leggo di una tizia che spaccia per un atto eroico, di un ardimento intriso di campanilismo, la sua scelta di restare a studiare in un’Università sarda anziché fare come tutte le amichette che, per presunzione e snobbismo, hanno deciso di fare le valigie e andare a mascherarsi da matricoline altrove. Rincara affermando che lei ha sempre fatto il biglietto di ritorno prima ancora di quello dell’andata. Cioè, in buona sostanza, mi si è spalancata davanti agli occhi una scenetta familiare dove i genitori accudenti chiedono: – Bella di papà, dove vuoi andare a studiare? Milano? Roma? Katmandu? – E lei: – No, sono sarda e orgogliosa di esserlo, compio un gesto valoroso e resto qui, papà. Ché mica sono come le mie amiche sgallettate che vanno fuori a fare le fighe! – e continua a smaltarsi le unghie. Magari, anzi di sicuro, le cose sono andate diversamente, ma io questo mi sono immaginata, con la fantasia galoppante che mi ritrovo.
E mi è venuta una tale rabbia…
Prima di proseguire fughiamo ogni dubbio, la scelta di emigrare non è una scelta: è una costrizione. Proprio perché non ci sono alternative, è l’unica via percorribile senza altre soluzioni ipotizzabili.
Chi emigra, ma parlo di chi emigra davvero, vorrebbe farlo quel cazzo di biglietto di ritorno, ma non può. Per mille motivi che non sto ad elencare.
E parlo con cognizione di causa perché, nel mio piccolo, un passato da emigrante l’ho avuto anch’io, quando mi si era prospettata l’occasione di passare di ruolo in Emilia Romagna non ho avuto l’opportunità di scegliere soffiando sulle unghie per far asciugare lo smalto. Vado o non vado? Non mi ero posta nemmeno il dubbio: un lavoro non si rifiuta, perché è un insulto. Anzi, una bestemmia.
L’ho pensato mentre riempivo una valigia, ricacciando indietro le lacrime per non preoccupare i miei genitori. Già abbastanza angosciati per conto loro. E so bene cosa si prova quando si sbarca in una città dove non conosci nessuno, dove l’unico contatto che ti fa sentire il sapore della Sardegna sono le telefonate che fai alla tua famiglia e agli amici. E quante volte ho creduto di non farcela a sopportare 3 anni di esilio, poi raddoppiati per cause di forza maggiore, stringendo i denti e tirando avanti perché un lavoro a tempo indeterminato non si può mollare. Perché è un insulto, anzi una bestemmia.
So cosa significa piangere davanti ad un pacco recapitato dal corriere quando lo apri e dentro ci trovi le spianate, il pecorino e la salsiccia di Murru. Simboli della tua terra. O quando finalmente, con grandi sacrifici, quel biglietto di ritorno per qualche giorno riesci a farlo e ingaggi una crudele gara col tempo per fagocitare quanto più riesci ad assorbire di casa tua. Per avere un po’ di riserve nel carniere, quel tanto di autonomia che basta per andare avanti in “terra straniera” fino alla prossima crisi d’astinenza. E quante volte mi sono sentita un’idiota nel pensare che la mia fosse una nostalgia insostenibile quando c’è gente che quel biglietto di andata l’ha dovuto fare per spingersi molto più lontano senza nemmeno la certezza di un lavoro che l’attendeva.
No, per piacere, prima di scrivere certe cose pensiamoci seriamente. Perché stiamo parlando di persone che dove vivevano non avevano niente e l’unica loro scelta era trovare un luogo per sopravvivere. Un po’ di rispetto, per favore.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
3 ottobre 2013: la strage di Lampedusa (di Giampaolo Cassitta)
Il prete e il povero (di Cosimo Filigheddu)
Una modesta proposta (di Cosimo Filigheddu)
La mia ora di libertà (di Giampaolo Cassitta)
A vent’anni si è stupidi davvero. A 80 no. (di giampaolo Cassitta)
La musica ai tempi del corona virus: innocenti evasioni per l’anno che verrà. (di Giampaolo Cassitta)
Guarderò Sanremo. E allora? (di Giampaolo Cassitta)
Quel gran genio di Lucio Battisti (di Giampaolo Cassitta)
Capri d’agosto (di Roberta Pietrasanta)
Il caporalato, il caporale e i protettori (di Mimmia Fresu)
Marshmallow alla dopamina (di Rossella Dettori)
377 paesi vivibili (di Roberto Virdis)
Per i capelli che portiam (di Mimmia Fresu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 17.708 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design