Al Pronto Soccorso una dottoressa gentile mi visita, sommariamente e velocemente, ma lo fa discretamente bene.
Come biasimare la sua fretta? C’è tanta gente che aspetta là fuori e ognuna di quelle persone combatte col dolore, proprio come me, con la speranza di liberarsene il più presto possibile. Lei ascolta i miei sintomi, pone le domande di rito, registra tutto al pc e poi chiama un infermiere affinché mi sistemi nel braccio una flebo di antidolorifico. Lui solerte sbuccia l’involucro, estrae l’ago e me lo schiaffa in vena. Non pago di ciò, sempre diligente agli ordini ricevuti, mi chiede di offrirgli la natica per un intramuscolo. – Mi segua – mi dice dopo con voce ferma. Obbedisco, non ho scelta.
Mi conduce in un’altra saletta dove ci sono pazienti e parenti. I primi in attesa di visita o referti o terapia o gesso, i secondi in permanenza per via dei loro familiari. Mi fa sedere su una sedia a rotelle, visto che le panche sono tutte occupate, ed io non me lo faccio ripetere e mi godo lo spettacolo.
Perché l’umanità, della quale faccio parte anch’io, è davvero uno spettacolo.
Scambio due chiacchiere con una signora belga, che parla discretamente l’italiano, ha nel braccio ancora le ventose dell’elettrocardiogramma appena fatto. Mi racconta che è lì dalle 10.00 del mattino, ed ha fatto un numero interminabile di esami clinici. Non mi dice quale sia il problema che l’ha spinta in Pronto Soccorso, ma sono ormai le 20.00 e se ancora la tengono per accertamenti suppongo sia qualcosa di serio. Ma lei è gentile e sorridente.
C’è una signora inglese molto distinta e controllata, sdraiata su una barella, Nel viso è leggibile tutta la stanchezza dell’attesa, ma il suo aplomb britannico le vieta qualsiasi scenata o sfogo di disappunto. Il marito sta accanto a lei, in piedi, e le legge devoto qualche notizia del quotidiano che ha in mano. Poi una mamma col bambino, caduto dalla bicicletta, a cui la ruzzolata ha martoriato il mignolo della mano sinistra. Attendono la radiografia.
Esce una dottoressa giovanissima, ha dei referti in mano, e si avvicina alla barella della signora inglese per rispedirla a casa, sembra. – Non deve camminare. NO CAMMINARE – le grida, mima i passi con le dita e poi fa un “no” deciso con la testa per un numero spropositato di volte. E’ molto teatrale nel suo gesto e sembra stia seguendo una partita di tennis. – Torni lunedì nel reparto di ortopedia. – urla ancora. Mi verrebbe da dirle – Guarda che è inglese, mica sorda – ovviamente taccio, però mi viene da ridere. Mi volto verso la signora belga e le suggerisco, una volta che la dottoressa si sia allontanata, di tradurre alla donna dal piede gonfio i divieti e le raccomandazioni. Poi, in maniera totalmente gratuita, aggiungo che a mio avviso i medici dovrebbero avere dei rudimenti di inglese. Almeno quelli che lavorano in una città a forte vocazione turistica.
– Di certo l’inglese lo conosce. – aggiunge una corpulenta paziente seduta di fronte a me. – Non mi è parso – le rispondo. – Ovvio che lo conosce, ma probabilmente è insicura nella pronuncia ed ha timore di fare brutta figura – – Ipotesi interessante – le dico mentre annuisco.
Irrompe nella sala un’infermiera, una O.S.S operatore socio sanitario come si chiamano adesso, con in mano numerosi contenitori di plastica che contengono il cibo della cena. Ci guarda spazientita e ingrugnita. L’espressione incazzata le regala, tra le due sopracciglia, numerose rughe parallele. Anzi, non sono rughe: sono autostrade.
– Siete troppi qua dentro, restino solo i pazienti ed i loro parenti vadano fuori. – Nessuno se la caga e ripete il monito. Stessa reazione indifferente della platea. Allora decide di individualizzare l’ordine: solleva il dito medio e lo punta, così, random, qua e là. – Lei è paziente o parente? – Qualcuno le risponde, qualcun altro la ignora.
– Minchia, ora lo chiede anche me. – penso e rido sotto i baffi solo al pensiero. –
– Lei è parente o paziente? – chiede alla signora belga con gli elettrodi ancora nel braccio che, forse, non ha visto. Forse.
– Dai, speriamo che me lo chieda. – mi ripeto come un mantra.
Le mie preghiere vengono esaudite e dopo 10 secondi mi trovo il suo dito sotto il naso, insieme alla perentoria domanda: – Lei è parente o paziente? – – Parente! – le rispondo laconica.
Dopo un attimo di smarrimento, ordina: – E allora vada fuori! – – Posso portare la flebo con me o la devo lasciare qui? – le chiedo ridendo.
Mi guarda come dire “Ah? ma io il sospetto che tu fossi una paziente l’avevo avuto, e ci avevo anche visto giusto, mica sono scema” ma non dice nulla, si limita a sbuffare un sonoro “Uff!” prima di indicare il signore alla mia sinistra ed esclamare, ancora una volta: – Parente o paziente? –
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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