Davanti alle folle che circondano il corpo di Padre Pio e ai vescovi che invocano ieratici la pioggia guidando torme di fedeli, mi sento un po’ a disagio. Un po’ come dovevano sentirsi certi martiri cristiani quando l’ammaestratore nell’arena sguinzagliava il leone: “I, Simba, morde!” (“Vai, Simba: azzanna!”, anche se non sono proprio sicuro che i leoni anche allora li chiamassero Simba e neppure che il vocativo di Simba sia proprio Simba). E mi sento tanto più a disagio poiché mi manca quella sorta di solidarietà che ho sempre immaginato esistesse tra vittime e carnefici, intendendo per questi ultimi i leoni rapiti alle loro savane e costretti a frustate a compiere atti innaturali, per di più sotto gli occhi di vasto pubblico. Non c’è leone che non preferisca gazzelle, antilopi e zebre a qualsiasi cristiano. E sono convinto che anche allora dovesse essere così. L’unica cosa certa è che di fronte a questi fenomeni davvero di massa che io considero superstizione, mi sento vittima proprio come quei cristiani martirizzati. Perché davanti a manifestazioni di superstizione dichiarata, al livello dell’esorcista a pagamento che gira nei bassi napoletani a scacciare il malocchio (Aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglio, corna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio, sciò sciò ciucciuvè, uocchio, maluocchio…), io mi sento confortato da una condivisa, diffusa e ironica incredulità. Ma avverto quasi una violenza che mi spaventa davanti a questi fenomeni che rivelano lati per me sconcertanti del cristianesimo, una delle principali componenti di una cultura della quale volente o nolente faccio parte. Io di queste cose ne parlo da estraneo, perché della religione ho una concezione tutta teorica e l’approccio personale è un’esperienza limitati all’infanzia. Tuttavia quei pochi anni mi hanno dato un imprinting che ha inguaribilmente formato quel senso di religiosità che comunque anche un irriducibile laico conserva se vive in una cultura permeata di cristianesimo. E questo imprinting ha poco a che fare con la superstizione. Io ho fatto prima comunione e cresima insieme che avevo setteo otto anni, dopo un corso accelerato di catechismo. Per dire che i miei, pur essendo credenti e assidui praticanti, non è che ci tenessero più di tanto che io fossi un frequentatore di sacrestie. Le preghiere me le ha insegnate mamma, le ho mormorate la notte sino agli unidici o dodici anni. Poi non più. Ma le ricordo ancora. E ricordo che il massimo della richiesta era: “Gesù, fammi buono e sano e assistimi in questa notte”. Di più mamma e babbo e i pochi preti che mi capitava di incontrare non mi incoraggiavano a chiedere. Capivo tutto il senso di quel chiedere, che non era altro che un “aiutami a essere come tu mi vuoi”. E cioè buono, sano nei desideri e nei comportamenti, e sicuro, protetto in questo momento in cui il buio e l’incoscienza del sonno mi rendono più indifeso. Al di là di questo, mi insegnavano, non è corretto chiedere. Nessuna lotteria da vincere, nessuna carriera da fare, ma neppure nessuna malattia da guarire, nessun guaio da cui uscire. Se vuoi proprio chiedere un aiutino – era l’implicito insegnamento – chiedi al divino di darti la forza di affrontare con gioia e pazienza tutto ciò che ti accade di bello e di brutto. Io ricordo in particolare un fatto. Avevo una decina di anni e un pomeriggio, anziché giocare in strada con i miei amici, andai a Santa Caterina e mi sedetti accanto alle poche vecchie bigotte che a quell’ora si trovavano lì. Un prete che conosceva la mia famiglia rimase incuriosito e persino preoccupato per la mia insolita presenza. E si avvicinò. -Cosa ci fai qui? -Così. -Così come? Quasi non vieni in chiesa neppure la domenica e ora… E’ successo qualcosa in casa? Mamma e babbo stanno bene? Tue sorelle, nonna e nonno? Insomma, un interrogatorio stringente che riuscì da un lato a rompere quel mio inconsueto momento mistico e dall’altro a spingermi a confessare. -Devo chiedere una grazia. -Questo l’ho capito, ma quale? Una disgrazia? -No, voglio soltanto che babbo torni a casa. Ora non pensiate che babbo fosse uno scavezzacollo scappato con una ballerina. Babbo era un medico condotto che lavorava lontano. E io lo vedevo soltanto a fine settimana, quando arrivava felice per quei due giorni che poteva trascorrere con la sua famiglia e la domenica sera gli occhi gli diventavano un po’ tristi perché pensava che l’indomani mattina sarebbe ripartito. Ecco, quel pomeriggio che andai in chiesa avevo scoperto che babbo mi mancava molto e tentai quella carta della “grazia” della quale avevo sentito parlare senza peraltro praticarla. Incalzato dal prete, raccontai la cosa. Ora voi, gente di Padre Pio, Radio Maria e processioni per la pioggia, penserete che il prete sia caduto in ginocchio unendosi commosso alle mie preghiere. Non proprio. Mi disse pressappoco. -Vai a giocare. Vedrai che quando sarà il momento babbo tornerà. Ma non devi chiederlo a Gesù. Gli devi volere bene e basta. Prova a pensare, del resto. Se per fare tornare a casa il tuo babbo Gesù dovesse mandare lontano il babbo di un altro, sarebbe giusto? Chiedi piuttosto a Gesù di farti diventare più buono perché se scopro che tu, Franco e Francolino siete tornati qui a rubare le candele per fare i razzi al mulino abbandonato di vicolo del Campanile, io non è che lo dico alle vostre mamme, io vi inseguo a calci nel sedere fino a sotto il vostro letto. E così, preso dal problema di essere stato scoperto e di chi fosse il ruffiano, trascurai quello della crisi affettiva ed ebbi una delle più importati lezioni di religione della mia vita. E mi è rimasta questa concezione del sacro per la quale l’acqua di Lourdes nella bottiglietta di plastica a forma di Madonna con il tappo in testa, l’ho sempre vista come una sorta di bestemmia collettiva che non sono mai riuscito a capire come chi ci credeva la sopportasse. E se una grazie potessi chiedere a Padre Pio sarebbe di dare una calmata ai suoi adoratori, dalle piazze ai salotti televisivi. Quindi io adesso, grazie ai miei scarsi studi più che all’esperienza, so che per i cristiani cattolici è un dovere guardare e persino toccare i cimeli sacri. Conosco molta aneddotica legata alle reliquie, tipo dita di santi staccate a morsi (dopo morti, meno male) per portarli trionfanti nelle rispettive chiese. I credenti bene informati mi assicurano che si tratta soltanto di venerazione, che non è una blasfema adorazione. Gli storici della religione mi spiegano che il cristianesimo ha sempre avuto un aspetto di concreto rispetto per la materia, cioè per il corpo, il quale può assumere un valore non trascendente ma che comunque richiama la trascendenza. Sarà. A me queste forme a volte macabre e a volte ridicole di religiosità gestite talvolta da persone che chissà perché mi danno l’idea di non crederci tanto, non convincono. E qualche volta, in qualche risvolto mediatico, anziché sentire mistico odore di rose, avverto puzza di family day. Ma si sa, io sono un miscredente ignorante e Radio Maria ha ragione quando dice che la morte verrà anche per me. Ma spero che quando verrà abbia gli occhi di una persona che amo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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