Dovevate vederlo nel backstage, il principe. Con la cuffietta di lana a provare e riprovare “Pablo” . Partire e ripartire o, come direbbe lui, a “battere e levare”. Ha parlato con i musicisti, soprattutto con l’organista, che non riusciva a creare il “vuoto” musicale come lui voleva. Pablo. Forse una delle più belle canzoni della musica italiana. La canzone per la quale De Gregori fu prima osannato come cantore della “sinistra” (Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo) e poi terribilmente contestato a Milano, messo sotto processo, proprio perché non proprio a “sinistra” secondo i canoni che quella strana sinistra decideva a quei tempi. Pablo, che è una canzone sull’emigrazione: la nostra però. Quella dove a piangere eravamo noi. Dove c’era il padrone che non capivamo, costretti ad andare con la valigia di cartone, a condividere il pane con altri, a sorridere senza mostrare i denti. Quell’urlo che anche ieri sera è passato nel 2016 a salutare un anno “così così”, quel Pablo che, nonostante tutto, è ancora vivo così come ricordava Che Guevara: “sparami, ucciderai solo un uomo”. La canzone dopo quarant’anni (anzi, quarantuno ormai) ha una diversa freschezza e diverse bocche che la cantano. E tutti la cantavano. Nessuno, però alzava più il pugno al cielo. E poi “Buonanotte fiorellino”, Sotto le stelle del messico a trapanar, Viva l’Italia che tutti cantano e conoscono, tre brani rubati a Bob Dylan che mostrano la purezza delle parole. E poi, ancora, una “Niente da capire” gioiosa e dolcissima e, quasi intatta nella bellezza e nella purezza, “La leva calcistica della classe 68”.
Lui, il principe, con cappello d’ordinanza, barba di una vita, occhiali da rockstar, menestrello ermetico, scrittore di frasi e canzoni bellissime, contorte, antiche e moderne. Forse non era uomo da piazza gioiosa e festosa, non era uomo da “trenini” allegri, da canzoni spagnoleggianti ed inneggianti al nulla. Non poteva esserlo. Non lo sarà mai. Lui ha cantato il suo pentagramma, con coerenza, muovendosi fisicamente pochissimo. Non un salto, non un urlo, niente che inneggiasse alla festa. Sono state le parole che ci hanno trasportato nel 2016. Con una infinita e struggente donna cannone, messa alla fine dell’esibizione per volare in cielo in carne ed ossa, dove non torneremo più. Non ha cantato tutto, il Principe. Ha cantato alcune canzoni (Caterina, per esempio) che parevano dimenticate nei cassetti della memoria. Però quando cominciava, molti (non tutti, è vero) annuivano e ricordavano piano. Con le sue canzoni ci ho vissuto, convissuto. E’ stata la mia colonna sonora e cominciare il 2016 con lui è stato un bell’inizio. Almeno per me.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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