Di Fiorenzo Caterini
L’altro giorno, in un affollato parco milanese, una ragazzina affetta da un ritardo mentale è stata presa a sassate da un gruppo di coetanei che poi è scappato via. La ragazzina, in forte stato di choc, ha riportato traumi e ferite varie, per fortuna non gravi, ma quello che colpisce è che nessuno ha visto nulla.
Al funerale del ragazzo padovano caduto misteriosamente della finestra dell’albergo milanese durante la gita scolastica, non c’erano i suoi compagni di classe. Nessuno ha visto, a quanto pare, quello che è successo, anche se le prime ipotesi hanno escluso che sia caduto accidentalmente.
Ad Orune invece un ragazzo è stato ucciso, e immediatamente, prima ancora che si avviassero le prime indagini, un fiume di parole ha iniziato ad accusare la comunità barbaricina di omertà, oltre alle solite analisi vecchie e stereotipate sulla balentìa e sulla vendetta barbaricina.
Per contro immediatamente gli inquirenti, grazie alle testimonianze, si sono diretti verso una buona pista investigativa, e il paese ha avuto una grande reazione per isolare la violenza. Al funerale del giovane c’era tutto il paese.
Quindi ci si ritrova in contesti urbani dove esiste un forma di omertà, e contesti tradizionali, da sempre tacciati di omertà dove invece si cerca di reagire.
Com’è possibile, dunque, che nel 2015 si possano analizzare fatti di cronaca ancora sotto la lente del pregiudizio e di vecchie formule sociologiche ormai non più adeguate alla realtà?
Purtroppo si vive nell’epoca del pregiudizio, che è diventato la scorciatoia semplice e preconfezionata ad un pensiero che, nella velocità delle informazioni e nella perdita di spirito critico dei nostri tempi, trova una sua corsia privilegiata.
In Barbagia l’omertà, tuttavia, al netto delle reazioni popolari che abbiamo visto ad Orune, sopravvive come retaggio di una diffusa sfiducia nello Stato, nella giustizia e nelle istituzioni. Una storia lunghissima, che proviene probabilmente dalle epoche romane, ma che ha visto, nel periodo dell’editto delle chiudende, con la distruzione della società tradizionale dell’epoca, basata sull’uso comunitario del territorio, e del banditismo di fine ‘800, una recrudescenza che ha segnato la coscienza delle persone, come ricorda bene il libro “Caccia Grossa” di Giulio Biechi. Uno Stato che interveniva con crudezza e ingiustizia per reprimere il banditismo ma lo faceva con metodi non selettivi, accusando anche di favoreggiamento chiunque avesse a che fare con un bandito, anche solo per dargli pietosamente un ricovero o un pezzo di pane. Ancora oggi, in alcuni paesi della Barbagia, la vita dei sindaci non è facile: essi sono visti come rappresentanti di quello Stato che per due secoli si è reso protagonista di soprusi ed ingiustizie. Anche alcuni comportamenti morali, nei paesi più isolati dell’interno, sono ancora connaturati da una emotività che viene trasmessa in famiglia, nonostante scuola, televisione e internet. Sembra di ritrovare, in certe manifestazioni di rancore, in paesi che a causa di scelte politiche storiche irragionevoli, vanno spopolandosi e non offrono nessuna prospettiva ai giovani, dei retaggi dei torti subiti nel passato e una forma di rifiuto delle istituzioni.
Quindi l’omertà della Barbagia era una forma oppositiva, una forma di protesta della classe subalterna contro il potere dominante, potere che si manifestava con i carabinieri e le sbarre del carcere. In Barbagia, per tradizione, se incontri una persona, in montagna, affamata e infreddolita, sei obbligato a dargli cibo e riparo. Non ha importanza se quello è un bandito, un ricercato, lo devi fare chiunque esso sia, e lo facevi perché la società barbaricina tradizionale sopravviveva grazie a quelle forme solidali. Perché un giorno poteva capitare a te di ritrovarti nella stessa situazione.
Invece per lo Stato italiano quello poteva essere un reato.
Questi attriti di differenti codici, e parliamo della parte della teoria di Antonio Pigliaru che, contestualizzata, è tuttora interessante e attuale, ha comportato un conflitto perenne tra cultura locale e cultura dominante, sanabile soltanto con la buona volontà delle parti, e non certo con il razzismo dilagante di questi tempi, dove si semplifica ad arte il messaggio e il pregiudizio è diventato la scorciatoia di una pessima cultura politica verso la pancia dell’elettore.
A quell’omertà storica, antropologica e culturale, da un po’ di tempo a questa parte, si contrappone invece una omertà sociale, tipica delle aree urbane. Una omertà, cioè, che in parte è dovuta alla diffidenza nelle istituzioni, ma perlopiù è il frutto della trasformazione dei legami sociali, che non sono più segmentari, orizzontali, ma verticali, e incanalati in forme tipiche. Oggi si vive nella solitudine affollata, nell’estraneità urbana. Si viaggia in una metropolitana affollata con l’unico scopo di evitare lo sguardo delle persone vicine, per evitare il riconoscimento. Nessuno parla più con l’altro, se è sconosciuto, notatelo, e molti utilizzano auricolari, quasi a manifestare la propria estraneità, la propria sordità.
Si avvera dunque la profezia contenuta nella canzone di Lucio Dalla “l’anno che verrà”, con i sacchi di sabbia messi vicino alla finestra.
Una volta due persone che si incontravano in paese, in campagna, si salutavano, anche senza conoscersi. Oggi, in città, il saluto è escluso, e il non parlare agli sconosciuti è un divieto insegnato fin da piccoli ai bambini.
In questa perdita di senso del legame sociale, il “farsi gli affari propri”, come undicesimo comandamento unanimemente riconosciuto, è un valore superiore, e di gran lunga, a quello di collaborare con il sistema giudiziario, il quale, spesso, viene sottoposto a dura critica solo al fine di trovare un pretesto per non avere seccature, in un mondo dove il tempo residuale è una bene talmente prezioso da non poter essere sottoposto a contrattazione alcuna.
L’antropologo bittese Michelangelo Pira, nel suo libro “la rivolta dell’oggetto”, negli anni ’70, aveva già compreso questi meccanismi sociali. Ricordava un episodio del programma televisivo “Specchio Segreto”, del grande regista sardo Nanni Loi, antesignano delle varie candid camera attuali, dove una ragazza era stata legata dentro un negozio in una grande città del Nord Italia. La gente entrava e faceva finta di non vederla. Una forma di omertà urbana, che non sarebbe stata possibile in nessun paese della Barbagia. Oggi un ragazzo padovano a Milano cade dalla finestra e nessuno, dei compagni di classe, ha visto nulla.
E non si presentano neppure al funerale, che non sia mai, si possa rivelare qualcosa agli inquirenti che, come si vede nei film, al funerale ci sono sempre a spiare.
La modernità è povera di riferimenti antropologici e sociali per i giovani. In una società moderna che ormai nega il rito di passaggio ai giovani, perché non più accettata dal buon senso comune, quelle forme codificate di ardimento necessarie per liberarsi delle paure della giovine età nell’ingresso nel mondo degli adulti, assumono, senza il controllo della ritualità e del codice, nei paesi della Barbagia, i contorni deformati dell’alcool, delle armi, dell’aggressività e del malinteso senso della virilità, altrove, in contesti urbanizzati, l’uso spregiudicati dei mezzi motorizzati, l’alcool e la droga, i massi lanciati dal cavalcavia e le pietre tirate ad una ragazzina.
Ma significativo è il fatto che la cultura dominante, quella ricca e urbana, preferisce parlare a sproposito di balentìa di un paese interno della Sardegna magari fortemente attaccato alla tradizioni, e non si interroga, in alcun modo, su questi fatti. Niente, zero, pur di non ammettere la propria perdita di valori, di coscienza civile, di legami solidali e continuare a sentirsi superiori al resto del mondo.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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