L’esodo dalla guerra siriana è ormai rappresentata da quel ritrovamento, da quel corpicino di bambino fradicio ed esanime; in un contesto più ampio, di semplificazione generica, quella immagine è il simbolo di tutto il complesso fenomeno dell’immigrazione verso l’Europa, che sta causando centinaia di morti per naufragio. Ma in Siria la gente, e i bambini, muoiono dal 2011. Sono 20.000, è stato calcolato, i bambini morti a causa della guerra. Così come muoiono i bambini in Palestina, in Iraq, in Eritrea, in Sierra Leone, nel Congo, a migliaia e migliaia a causa, soprattutto, di guerre atroci e feroci di cui, il nostro mondo, i nostri governi, lo stesso nostro stile di vita, è compartecipe e in larga parte responsabile. Però il mondo pare svelarsi pietoso e indignato solo ora. Perché? L’immagine è un testo immediato, trasmette una emozione che sorvola i centri della ratio. Indignazione, pietà e rabbia sgorgano immediatamente dall’organismo come una tempesta. Gran parte della discussione, però, si arena sull’etica delle immagini, se fosse giusta quella pubblicazione. Si fa una grande fatica ad andare oltre la superficie vitrea del nostro dispositivo mediatico, e provare a capire, oltre l’immagine, il fatto. Tutto inizia, a mio parere, con l’aggressione agli “stati canaglia”, per il controllo dello scacchiere geopolitico. Nazioni che sfuggono al sistema economico a guida occidentale, Libia, Iraq, Siria, Afghanistan, vengono travolte da guerre con motivazioni più o meno plausibili, più o meno ingannevoli. Ma per aggredire questi stati, per il controllo strategico delle aree petrolifere, gli stati occidentali hanno dovuto manipolare l’opinione pubblica. Una propaganda che ha usato, come strumento di manipolazione delle coscienze, la semplificazione del messaggio, che viene ridotto con scorciatoie fallaci della logica, con slogan ingannevoli, con opposizioni binarie che non contemplano equilibrio, con soluzioni semplici a problemi complessi, con modalità di comunicazione spicce. A lungo andare, questa comunicazione martellante, ha finito per infondere nella gente una disabitudine alla logica, al ragionamento, alla complessità dei temi, all’equilibrio. Tutti ricorderanno, ad esempio, l’accostamento del tutto arbitrario tra la retorica anti-islamica post 11 settembre e l’aggressione all’Iraq, che con quell’evento poco c’entrava. Un minestrone voluto, insomma. In questo contesto, l’immagine del piccolo Aylan emerge, ma con gli stessi codici interpretativi che avevano provocato la diffusione dell’incapacità di interpretazione complessa dei dati, come mera opposizione sentimentale ad un contesto crescente di barbarie, cinismo, ignoranza, razzismo. La storia nuda e cruda del bambino va poco oltre il fermo immagine. Già di tutto il resto, persino del fratellino di 5 anni morto con lui, poco interessa. Sembra di rilevare una accentuazione emotiva del fatto, da parte dei mainstream, come se l’importante sia tenere le cose ad un livello superficiale, senza approfondimenti critici, senza mettere in relazione i fenomeni. Il bambino morto proveniva da Kobane, città siriana al confine con la Turchia, quella della resistenza dei curdi contro i tagliatori di teste dell’Isis. Quando l’esercito dell’Isis assediò Kobane, e penetrò nella periferia, i cittadini combatterono casa per casa, si difesero strenuamente, persino le donne, di tutte le età, parteciparono ai combattimenti che costarono 2000 morti. Solo dopo quattro mesi di lotta per le vie della cittadina la coalizione dei paesi occidentali si decise a sganciare qualche bomba contro le postazioni dell’Isis. Insomma, i curdi lottavano per la loro libertà, ma anche per un mondo migliore. Lottavano anche per noi. Quella lotta, quella resistenza, riduceva la città ad un cumulo di macerie, stretta come una tenaglia tra i tradizionali nemici della potente Turchia, e i nuovi nemici dell’Isis, che è bene ricordarlo, sono la deviazione più estrema e drammatica di una guerra condotta da americani ed europei, durata oltre 8 anni, e che ha ridotto l’Iraq ad una terra disgraziata, molto peggio di come era prima, sia dal punto di vista economico che politico, con bande di predoni e i tagliateste dell’Isis a farla da padrona. Davvero un bel lavoro, complimenti. E’ stato calcolato che in Iraq le morti direttamente causate dalla guerra superano il milione, quelle indotte dalla conseguente catastrofe umanitaria molte di più, si parla addirittura di 5 milioni di morti. Ora, provate mentalmente a mettere in fila tutti questi morti. L’immagine del piccolo Aylan campeggia nelle bacheche, ma noi proviamo ugualmente, nel dolore, a mettere in funzione il cervello: Che ci facevano i nostri soldati in Afghanistan, in Iraq? Che ci fanno le nostre armi in Siria? E’ un caso che un mostro come l’Isis nasca in un luogo così disastrato? E’ un caso che la famiglia di Aylan fuggisse dall’Isis? La storia è ormai nota. Uno di questi curdi di Kobane, decide di rifarsi una vita, di andare via, ha la fortuna di avere dei parenti all’estero. Chiede asilo politico al Canada, paese ricchissimo di risorse naturali e grande quanto l’Europa intera, e con gli abitanti poco più della metà dell’Italia. Il Canada rifiuta l’asilo, e allora l’uomo con moglie e due figli piccoli fugge verso l’Europa. L’uomo sopravvive, disperato e tormentato dai sensi di colpa, a tutta la sua famiglia, annegata nel mare culla della civiltà e degli scambi culturali. Dietro quel corpicino e quello di tanti altri bambini morti in questi giorni, in questi mesi, ci sta una politica di gestione dei flussi migratori di via mare, della Comunità Europea, semplicemente inumana, con un’operazione, denominata “Triton”, che costava poco più di 30 milioni di euro, ovvero un terzo di quello che l’Italia, da sola, spendeva con Mare Nostrum. Triton è concepita solo per il controllo delle frontiere e non per la ricerca e il soccorso, non sia mai, e potenziata, finalmente, solo dopo i drammi di questi mesi. Un’operazione all’acqua di rose perché, dopo la propaganda d’apparato, mainstream, sono arrivati gli sciacalli, a peggiorare la situazione. Gli sciacalli, coloro che approfittano degli istinti più biechi, razzismo e paura del diverso, per fare squallido opportunismo politico, per fare demagogia e guadagnare facile consenso elettorale e visibilità. E ora i governi temono che qualunque spesa umanitaria possa rivelarsi impopolare. Si è creato, dunque, un circolo vizioso, un gorgo putrido. Le bestie immonde che speculano sulla paura e la diffidenza, accelerano il processo di distacco funzionale dal sapere e dalla logica. Si crea un ambiente generalmente ostile ad ogni forma di intervento umanitario, senza nessun discernimento e comprensione del fenomeno. I governi, sostenuti da quelle compagnie multinazionali che nei paesi in guerra ci fanno affari, si trovano a confrontarsi con un elettorato sempre più cieco e culturalmente analfabeta che, tra l’altro, pretende risultati economici senza badare all’etica. Il declino della civiltà europea ha intrapreso la sua rincorsa, i governi sono schiavi della loro immagine, succubi di una popolarità che deve per forza “difendere” lo status, la privacy, un benessere che è più materiale che umano. Precarietà e disoccupazione, inoltre, alimentano un malessere che provoca ansia e sfiducia nel futuro. L’abdicazione alla solidarietà è il preludio alla disgregazione sociale. Lo si vede già nella retorica che aizza tra loro le componenti sociali. Razzisti contro buonisti, pubblico contro privato, lavoratori contro disoccupati, insegnanti contro genitori, commercianti contro consumatori, e tutti contro gli immigrati e le altre etnie, nella speranza che le responsabilità della classe dirigente restino confuse dietro il gioco di accuse, di colpe e di odio. Il circolo vizioso in cui è caduta l’Europa è una spirale vorticosa, e ancora non si vede all’orizzonte una inversione di tendenza che inizi a fare la cosa più semplice di tutte. Una cosa molto semplice che ridurrebbe l’immigrazione ad un fatto fisiologico, sempre esistito, gestibile con i normali metodi di regolamentazione degli ingressi. Fermare le guerre. Come dice quel piccolo profugo siriano in Ungheria, fermate le guerre, e noi stiamo a casa nostra. Fermare le guerre, può apparire un sogno, ma è meno difficile di quanto si creda. Basta volerlo, tutti.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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