E’ partita in grande stile la controffensiva dei sostenitori dell’olio di palma negli alimenti. Probabilmente una parte dei consumatori sta incominciando a prendere coscienza della questione, che così diventa preoccupante per l’industria alimentare. La polemica contro l’uso abnorme dell’olio di palma negli alimenti, specie nell’industria dolciaria, si può dividere in due implicazioni, una di natura salutista e l’altra etica o ambientale. E’ vero che l’olio di palma fa male? È vero che l’olio di palma distrugge con le sue piantagioni la foresta pluviale? Un momento clou di questa controffensiva è rappresentata dalla conferenza stampa promossa dal gruppo parlamentare di Scelta Civica tra cui spicca il dietologo Pierpaolo Vargiu, dal titolo “Tra scienza e falsi miti: il caso olio di palma” Durante questa conferenza stampa si sono avvicendati alcuni esperti che hanno spiegato che la questione “olio di palma”, è una ingiusta montatura che la scienza ha ampiamente smentito, in quanto è appurato che “l’olio di palma non fa male… più di altri alimenti”. Ma il momento topico è dato dal rappresentante dell’Aidepi, l’associazione dei produttori che sta spendendo fior di quattrini in questa controffensiva, Paolo Barilla della nota casa, il quale, dopo una serie di giri di parole, ammette che la vera motivazione dell’esplosione di questo ingrediente sta nel suo basso costo. E’ un polverone, si sostiene, come quelli che hanno comportato il rifiuto di molte persone a vaccinare i bambini, che poi dei bambini sono pure morti. A cosa può portare la credulità popolare! Lo stesso Vargiu, conterraneo, tocca un argomento a me caro, quello del disboscamento della Sardegna. Quel poco di sviluppo dell’isola, è stato prodotto dal disboscamento, attuato in forme tradizionali, come il narbone, che ha prodotto reddito e lavoro, senza dimenticare miniere e persino le ferrovie europee. Insomma un sacrificio utile, che non può essere negato, per ragioni etiche, alle popolazioni, come la Malesia e l’Indonesia che, come aggiungono altri relatori presenti, si trovano in estrema povertà e hanno aumentato (addirittura di dieci volte!?) il loro reddito grazie alla palma e al disboscamento della foresta pluviale. Non possiamo impedire il disboscamento, che crea sviluppo. Non è giusto. Questa offensiva, tuttavia, che unisce industria alimentare a settori dell’arco parlamentare, aiuta a comprendere quali interessi si muovono per impedire che venga trattato con obbiettività un argomento così delicato, che investe la salute del consumatore e il destino ambientale del pianeta. Nessuno nega l’importanza dell’industria alimentare e, in particolare, delle produzioni dolciarie italiane, una eccellenza mondiale che produce reddito, lavoro ed economia. Ma è giusto capire senza condizionamenti questioni che riguardano la salute pubblica e l’ambiente che ci circonda. L’olio di palma, dunque, fa male davvero? o è una montatura priva di scientificità? E poi, che c’entra l’analogia con i vaccini? Niente, non c’azzecca nulla. Infatti la scienza è piuttosto unanime sulla utilità sociale dei vaccini, tanto che la famosa teoria sul legame tra autismo e vaccini è stata da tempo confutata. Per contro, la scienza non dice che l’olio di palma non fa male, al contrario. La scienza è piuttosto concorde nel sottolineare che l’alimento in questione, contenendo i grassi saturi, è nocivo per la salute. Ma allora? Qui i sostenitori dell’olio di palma utilizzano una tecnica comunicativa ingannevole, ovvero millantano un alleato, la scienza, che in realtà non lo è. Lo millantano ribaltando la tesi originaria: si è vero, l’olio di palma fa male, ma come altri alimenti, l’importante è l’uso che se ne fa, la quantità, eccetera. Cosa piuttosto ovvia, anche l’insalata fa male se ne mangi troppa. Quindi l’olio di palma, che contiene grassi saturi, fa male, ma come gli altri alimenti, si pensi al burro, allo strutto, alla carne rossa , al formaggio, alla margarina. Tanto vale! Il punto che si conviene, dunque, è il seguente. Perché demonizzare un alimento come l’olio di palma, dato che non è il solo a contenere grassi saturi? I sostenitori dell’olio di palma, al riguardo, rivendicano una discriminazione nei confronti del loro alimento. L’olio di palma, dicono è oggetto di una eccessiva demonizzazione, una montatura mediatica, nata soprattutto sui blog di internet, incontrollati, pronti a condividere bufale, e del tutto ingiusta. Tuttavia, si dimentica che è da decenni che ci ossessionano con il paradigma del colesterolo, e non c’è giornale di benessere, salute, fitness, donna bella e in forma e superman che non ci torturi con le raccomandazioni di non mangiare carni grasse, grassi animali come il burro e lo strutto, salumi di vario genere, fino a toccare il bene gastronomico a noi sardi più caro, l’adorato formaggio. Tanto che il burro, una volta sempre presente nel frigo della mamma, oggi è sparito, e riemerge giusto per la torta periodica di famiglia. Per cui non è assolutamente vero che l’olio di palma è soggetto a discriminazione, è sconsigliato esattamente come tutti gli altri alimenti che contengono quel tipo di grassi. Ammesso e non concesso, dunque, che questi alimenti siano nocivi allo stesso modo, io due differenze le vorrei sottolineare. La prima è culturale. Esiste anche una buona tavola, una buona cucina fatta di ricette e di tradizioni gastronomiche. Se proprio mi devo suicidare, lo faccio con la torta di mele al burro della nonna, o con una maccheronata al burro con sfurriata di pecorino fresco (e una grattatina di pepe), piuttosto che con una merendina industriale. La seconda è nutritiva. Non sono un dietologo, ma avendo fatto sport agonistico per trent’anni, alcune cose le ho capite. Una cosa è nutrirsi, una cose è riempirsi. Il burro, ad esempio, contiene anche calcio, vitamina A, proteine del latte. E’ un alimento che ha un certo valore nutritivo. L’olio di palma utilizzato dall’industria dolciaria, no. Significa che se mangi la torta di mele della nonna, ti stai nutrendo, se mangi una merendina industriale, con zuccheri raffinati e olio di palma, non ti stai nutrendo, ti stai riempendo. Il bambino mangia dunque un alimento con scarso valore nutritivo, e ha subito fame, perché gli mancano dei nutritivi. La dieta non è bilanciata, e questo è uno dei motivi del dilagare dell’obesità infantile. La cultura alimentare ha fatto molto per emarginare alimenti, come i grassi idrogenati, davvero dannosi per la salute, ora con l’olio di palma è innegabile che l’industria abbia fatto un passo indietro. A maggior ragione se pensiamo che l’uso dell’olio di palma, dovuto al suo basso costo, ha favorito l’invasione dei prodotti dolciari nella nostra mensa. Le pubblicità televisive, che possiamo definire a ragion veduta ingannevoli, con la famigliola riunita per la colazione, con la nonna fiduciaria della tradizione, con la mamma sportiva sprint e performante e tanti altri modelli positivi, hanno finito per condizionare l’immaginario collettivo del nostro rapporto con gli alimenti, al punto che è stato naturale sostituire, per colazione, per merenda o per dessert, il dolce industriale all’olio di palma con la fetta di panne imburrata, con la marmellata o il miele. Il risultato è la vanificazione di anni di impegno nella cultura alimentare. Abbiamo fatto sacrifici per evitare a noi stessi e ai nostri figli un eccesso di carne, di salumi, abbiamo quasi abolito il burro, per poi ritrovarci invasi da prodotti dolciari a base di olio di palma, ovvero di un altro grasso saturo. L’olio di palma è dannoso soprattutto per questo, perché si aggiunge ad una dieta che già ci viene rimproverata essere troppo satura, ricca di grassi dannosi. E ormai i biscotti costano meno del pane. E questo grazie soprattutto a questo ingrediente di scarsa qualità. Questo è un dato che dimostra l’importanza irrinunciabile dell’olio di palma per l’industria dolciaria, e dimostra anche la sua invasione nelle tavole delle nostre case. Ecco perché, molto semplicemente, l’olio di palma è un ingrediente inutile e dannoso, anche se costa poco. Ora il punto si gioca sulla cultura, sull’informazione. Ed è giusto che ciascuno si faccia una idea e poi scelga, e mangi quello che vuole. Sottolineo questo aspetto, perché è chiaro che, mangiando una patatina industriale, o una bibita, siamo consapevoli che stiamo mangiando una porcheria, ma lo facciamo per la gratificazione psicologica che ci trasmette quell’alimento. Accettiamo dunque i pro e i contro e scegliamo. Nel caso dell’olio di palma, l’informazione è meno chiara, perché nessuno si immagina che dietro la famigliola della televisione, la nonna sorridente o la mamma sprint vi sia un alimento dannoso. Quindi informazione. Che si sappia, con buona pace dell’industria alimentare. La seconda questione è quella etica. Intanto mi duole sottolineare un certo pressapochismo geografico. L’Indonesia e la Malesia non sono propriamente dei paesi arretrati, sono considerate delle medie potenze dell’area del sud-est asiatico, con città moderne, grattacieli, industrie, e in molte zone un tenore di vita piuttosto alto. Certamente sono nazioni, soprattutto l’Indonesia, paese immenso con 250 milioni di abitanti, con enormi problemi sociali. E dubito fortemente che un modello di sviluppo moderno si possa verificare con il disboscamento della foresta pluviale. Un disboscamento selvaggio per introdurre una monocultura imposta da multinazionali che sfruttano terreno e mano d’opera. Tanto meno il disboscamento della Sardegna ha prodotto sviluppo. E’ una sciocchezza. Così come è una sciocchezza che il narbone abbia prodotto reddito e lavoro. Era l’integrazione agricola itinerante, tipica di tante culture tradizionali, in cui si sfruttava per qualche anno la fertilità di un piccolo tratto di foresta, senza nuocere in nessun modo all’equilibrio della stessa, come è stato ampiamente dimostrato a proposito degli indios dell’Amazzonia che praticano un sistema simile. L’avanzare dell’agricoltura a scapito della foresta è un segno di sviluppo solo quando è accompagnata da una crescita demografica che la giustifichi, altrimenti è pura speculazione. Tuttavia, l’argomento più forte a vantaggio dei fautori dell’olio è la grande produttività della pianta. Per produrre lo stesso quantitativo, occorrono meno ettari che per le arachidi o la soia. Per produrre un olio alternativo alla palma, si disboscherebbero più ettari, insomma Un ragionamento che, apparentemente, non farebbe una grinza. In realtà, ci si trova di fronte ad un tipico caso di semplificazione di una realtà complessa. La palma, infatti, si è aggiunta alle precedenti produzioni, aumentando a dismisura le superfici coltivate a discapito della foresta. Non c’è stata una sostituzione delle altre produzioni, ma una aggiunta. Il business vantaggioso dell’olio di palma ha innescato una rincorsa al disboscamento e alla piantagione, che ha finito per produrre persino carburante per le centrali a biomasse, oltre che per la tradizionale industria cosmetica. Si è scatenata una produzione di massa simile a quella di altre monocolture che, come si può vedere con il senno di poi, tutto hanno portato fuorché il benessere alle popolazioni locali. Lo dimostrano le cifre spaventose che riguardano il disboscamento dovuto a questo prodotto. Quindi non è dimostrato che una diminuzione della produzione di olio di palma comporti un aumento esponenziale delle produzione di altri prodotti oleosi a discapito della foresta. La produzione gigantesca dell’olio di palma ha invece reso conveniente, per l’industria dolciaria occidentale, il suo utilizzo a discapito di altri ingredienti qualitativamente migliori, attivando una reazione a catena dettata dalla concorrenza mercantile. Chi usa l’olio di palma, infatti, può imporre un prezzo concorrenziale a discapito di altri prodotti, che alla fine si vedono costretti al suo uso. Fatta eccezione per prodotti di nicchia di alta qualità, infatti, quasi tutti i produttori ormai usano l’olio di palma. Alla fine, sarà il consumatore a decidere le sorti di questa vicenda. Vorrei solo ricordare una cosa, però. In fin dei conti, noi siamo il pianeta. E la nostra salute personale, e quella del pianeta, sono la stessa cosa. Facciamoci caso, per favore.
foto Greenpeace
Pubblicato il 18 ottobre 2015
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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