Il diciassette giugno 1970 riuscimmo a gioire a seguito di una sofferenza. Se avessi conosciuto a quei tempi i versi di Giacomo Leopardi, la partita di calcio Italia Germania poteva essere sintetizzata con le parole del poeta: “piacer figlio d’affanno”. Ci avevamo buttato l’anima e il sudore su quel manto erboso. Tutti, ma proprio tutti eravamo allo stadio Atzeca quel giorno. Tutti ci sentivamo protagonisti. Tutti raccoglievamo quella vittoria e la trasformavamo in opportunità. Certo, vincere con il Brasile non sarebbe stato facile, personalmente la ritenevo un’eventualità fortuita. Avevamo battuto i tedeschi e questo era la cosa più importante. Almeno sino al 21 giugno 1970 quando perdemmo, per sempre, la coppa Rimet e dove Pelè ci insegnò cosa fosse la “saudade” e cosa fosse il calcio. Il re è partito, il re non salta più, non gioca più, non corre più. Ma la sua corona non rotola da nessuna parte. Lui era il re, lui era il calcio, era la bellezza intensa delle cose possibili ed impossibili. Ha atteso che tutto finisse, che le luci dell’ultimo mondiale si spegnessero. Ha osservato con occhi lucidi gonfi di malinconia scolorita. Quel gol, quel salto, quel colpo di testa, quella rovesciata, quei mille e mille gol, quella rete gonfia a ricevere il pallone. Il suo pallone.Il re è partito. Ma non per sempre. Il re è stato il sogno da realizzare, disegnare, immaginare. Si parte dall’innocenza e dalla povertà e si diventa re. Almeno nel calcio questo è stato possibile. Come rimanere bambini e commuoversi ad un gol di Edson Arantes do Nascimento, noto Pelè. Il re.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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