L’acqua dentro il porto aveva tutti i colori del paese, l’altra mattina. Si vedevano le finestre delle case, tanto era calma la superfice e intero il riflesso. Erano anni che volevo tornare a Spargi, ma tornarci davvero. E quando dico Spargi non parlo di Cala Corsara né delle altre spiagge, anche se Cala Corsara resta la più bella insenatura della Sardegna. Quando parlo di Spargi penso all’interno dell’isola.
Gli antichi la chiamavano Nymphaea. Sembra che un’isola “piccola” non possa avere un interno. Spargi smentisce questa regola. Quattro km2, contro i diciannove di La Maddalena. Però è alta uguale e c’è solo una casa, abitata, a volte, d’estate. E l’interno di Spargi è Sardegna pura: vallate coperte di lecci e corbezzoli, tafoni, ammassi granitici, funghi. E salite.
Sapevamo, io e i miei due compari, che quella era forse l’ultima giornata estiva di questo inizio d’inverno. Finalmente. C’è tanto di quel caldo nel cielo che, come si dice in questi casi “ce la farà pagare”. Non si capisce bene chi, cosa, perché e come, ma tutti dicono che “ce la farà pagare”. Un caldo furente, se la gente tra Natale e Capodanno gira a mezze maniche e la mattina le case e la terra sono zuppe d’acqua come dopo una pioggia. Vorrei che ognuno pagasse in proporzione agli errori commessi, ma non sarà così.
Il gommone, ad esempio, sembrava sudato. La gomma dei tubolari, la coperta, la calotta del motore, tutto era coperto da un velo d’acqua. Un mare così tranquillo però non lo vedevo da anni. Non c’era un’onda. Non un’increspatura. Un mare in cui sembra impossibile persino affondare.
Tra Cala Gavetta e Spargi incontriamo due o tre barche. Arriviamo a Cala Canniccio (Cala Ferrigno) verso le undici meno dieci, senza avere un percorso prestabilito. L’unica certezza è che vogliamo camminare, salire, allontanarci dal mare. Ormeggiamo il gommone all’inglese e partiamo.
Per non sbagliare, prima di partire mi tolgo giacca a vento e felpa e rimango a maniche corte. C’è caldo. Sparisce solo nei tratti in ombra ma c’è.
Il primo tratto è obbligato: sentiero per Petrajaccio. La zona ha prestato il nome a una delle batterie anti nave più belle dell’Arcipelago, completamente mimetizzata nella roccia per camuffare le postazioni di tiro all’occhio dei bombardieri nemici. Il nome evoca durezza: Petrajaccio, pietra e ajaccio, pietra e ginepro. Ma forse, più semplicemente, pietraia. Ci sono altri posti nell’Arcipelago con lo stesso nome. E in tutti comanda il granito.
Il sentiero presenta tracce chiare, purtroppo. Ci sono passati i cinghiali, da due giorni al massimo. Erano stati introdotti dall’uomo negli anni Ottanta. Dati per estinti da qualche anno, sembrava che la natura avesse ristabilito un equilibrio laddove alcuni somari avevano tentato di stravolgerlo. Ma certi somari non rischiano l’estinzione, e siamo punto e daccapo.
Al primo bivio pieghiamo a sinistra e iniziamo a salire.
Qua e là troviamo anche dei funghi. Ma non siamo qui per questo, per quanto, se si trattasse di pleurotus, i funghi della ferula, il discorso cambierebbe. Sarebbe il cardoncello, che qui ha un nome tutto suo: sallazzaru. Sicuramente prende il nome da uno dei due santi, il Lazzaro resuscitato da Gesù o il povero della parabola. Il punto è capire perché, visto che qui non esiste un culto legato a Lazzaro, mentre questo nome del fungo pare esistere solo nell’Arcipelago. Ho una mia idea e un giorno ne scriverò, ma non ora.
Il sentiero prosegue. Al secondo bivio prendiamo a destra per Punta banditi. Il nome non ha bisogno di spiegazioni. La vetta nasconde un’altra postazione militare. Ogni tanto l’occhio cade su pezzi di ferro arrugginiti. Larghi quanto una mano, spessi due o tre dita, uno diverso dall’altro. Sono pezzi di bomba. Ricordi della guerra che devastò l’Italia e il mondo intero, e che fece il nido nell’Arcipelago, piazzaforte militare al confine col nemico. Il mare però, visto da lassù è letterario: Omero, Conrad, Izzo, fate voi. Ogni volta che attraverso un forte abbandonato o mi siedo su una piazzola di tiro e guardo il mare, mi chiedo se a quei soldati poteva sembrare bello come sembra a noi. Mi chiedo se avessero un metro uguale al nostro per misurare la bellezza o se, lontani dalla nostra idea di turismo e lontani soprattutto dalle loro case, non avessero piuttosto in odio tutto quel blu. Resto sempre senza risposta e mi faccio sempre la stessa domanda, ogni volta che passo tra quei ruderi.
Nell’attesa di capire apro un’arancia, la divido con gli altri due ed è ora di ripartire.
Seconda tappa, Casa Natale, o la casa del pastore. Che poi il vero bandito era lui, almeno per la leggenda. Natale Berretta, maddalenino di origini corse, come molti ai suoi tempi. Nato nel 1797 era diventato il padrone di Spargi. Le cronache lo descrivono, in vecchiaia, come un re omerico, felice della sua vita piena e avventurosa, coronata dal benessere e dalla quiete del suo podere, che contava vigne, granai, frutteti e decine di capi di bestiame.
Della sua casa e della sua azienda, tenute in vita dagli eredi fino alla prima metà del Novecento, restano ruderi che la vegetazione lentamente ha iniziato a divorare. Gironzoliamo un po’ tra i tafoni e mettiamo il naso dentro alcune stanze, stando attenti a non farci crollare in testa parti del tetto. Poi decidiamo di fermarci una mezz’ora per mangiare un panino e asciugarci al sole. Le scarpe e i pantaloni, dal ginocchio in giù, sono zuppi d’acqua. La vegetazione è fradicia d’acqua perché non c’è vento, e il sole arriva dove può.
Da lassù si vede poco mare ma tutto intorno è pieno di alberi. È come stare in un altro posto. Non la stessa isola che vediamo ogni volta che prendiamo un traghetto o facciamo un giro in panoramica. Questo lato di Spargi non si intuisce, e per vederlo occorre entrarci.
Ripartiamo puntando verso nord. Abbiamo due possibilità: o Nord-Ovest, per raggiungere Zanotto (un’altra batteria militare nascosta nella roccia) oppure Nord-Est, tornando sui nostri passi. Scegliamo la terza, Nord-Nord. Nel senso che attraversiamo quella che era la vigna e proviamo a inventarci un percorso che non c’è, o che magari c’era ed è sparito. Non abbiamo bussole, carte o GPS. Abbiamo solo qualche ora di tempo e il desiderio di camminare e guardare. Facciamo un paio di tentativi. Ogni abbozzo di sentiero che imbocchiamo si chiude dopo pochi metri e ci costringe a cercare ancora. Era quello che volevamo. A furia di cercare però, il sole si sposta e comincia ad allungare le ombre. Facciamo un ultimo tentativo: tirare dritti senza sentiero usando la logica. Prendiamo qualche punto di riferimento, una casa, un muro a secco, un gelso, due alberi appaiati, tutti segni di una vita che c’è stata e che poi è andata via, lasciando il posto alla macchia mediterranea. Pensiamo che tra quelle tracce forse è rimasto anche un sentiero, magari nascosto ma non del tutto cancellato da nuovi rami e nuove radici. Forse c’è, ma non lo troviamo. Sappiamo che se c’è, è là sotto da qualche parte; il sole però è sempre più basso, e prima che faccia buio è necessario tornare all’unico sentiero di cui siamo sicuri.
Nel giro di un’ora siamo di nuovo sul gommone.
Il mare è sempre più calmo.
Non ci sono barche, neanche quelle che di solito, a dicembre e a quest’ora, escono per totanare. Sarà il caldo, saranno i delfini, sarà che ci sfugge qualcosa, ma l’unica barca siamo noi.
Va bene anche così, penso.
Prima di salutarci facciamo un salto al bar di Cala Gavetta, quello più vicino al cuore del vecchio porto. Ci sediamo fuori e prendiamo un caffè. Intorno il paese si muove piano, con calma. C’è molto silenzio.
Penso a come debba essere perfetto, proprio ora, il silenzio di Spargi. E sento che vorrei essere lì.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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