Da studente, la chimica non mi ha mai appassionato. Diciamo che ero una discreta frana. Diciamo che non mi piaceva per nulla. Il “piccolo chimico” non l’ho mai trovato sotto l’albero né mai l’ho richiesto. E’ stato un libro a farmi intuire perché la chimica mi stesse tanto indigesta. Dopo aver letto le “Favole periodiche” di Hugh Aldersey-Williams ho capito che il problema era chi me l’avrebbe dovuta insegnare, la chimica. Il discorso vale, sia chiaro, per ogni materia di studio. Ma per cose in teoria pallosissime come la chimica è fondamentale il metodo con cui si comunica, la capacità di trasmettere il sapere e, se permettete, anche la passione per ciò che si insegna. Non ho avuto la fortuna di imbattermi in docenti di chimica dotati di queste qualità. Ho così avuto la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che per fare un buon insegnante non basta una cattedra.
Da studente annoiato alle prese con formule e reazioni da mandare a memoria, mi sono sforzato di strappare il fatidico “sei” finché la chimica è definitivamente uscita dal mio campo di interessi così come era entrata. Capitolo chiuso. Poi, per caso, ho letto da qualche parte una recensione del libro di Aldersey-Williams, un chimico. E me lo sono comprato. Mi sono così imbattuto nella storia di una incredibile donna polacca.
Maria Sklodowska, classe 1867, non potendo essere ammessa in quanto donna all’Università di Varsavia, emigra a Parigi per frequentare la Sorbona. Studia chimica e fisica. Pronta al ritorno in patria con le due lauree in tasca, incontra un uomo con il quale condividere le sue passioni, Pierre Curie, lo sposa e resta in Francia, consegnando la sua vita alla scienza. Maria è curiosa, molto curiosa. Vuole capire l’origine di quelle misteriose cariche elettriche, di quell’energia che altre sostanze, non solo l’uranio, sprigionano. Capirlo, visti gli strumenti dell’epoca, non è certo facile.
Lei e il marito si procurano il minerale d’uranio, la pechblenda, lo dissolvono con i reagenti, lo studiano, lo scompongono, lo fanno bollire, ne osservano le reazioni. Si procurano tonnellate di questa pechblenda che arriva in sacchi di polvere marrone mescolati con aghi di pino nella loro baracca trasformata in laboratorio. Preparano giganteschi calderoni per bollire, filtrare, frazionare, scomporre, utilizzano tutti i metodi possibili e immaginabili, a caccia degli invisibili responsabili di quelle radiazioni. Finché si rendono conto che il segreto sta nella struttura atomica. Isolano il radio. Spesso, durante la notte, tornano nel loro laboratorio delle meraviglie per guardare ammirati ed emozionati i primi campioni che splendono di quella strana luce blu.
“Nostra signora del radium” come la soprannominò uno scettico George Bernard Shaw, riceve il Nobel per la fisica, insieme al marito e allo scopritore dell’uranio, Henri Becquerel. Nel 1911 le sarà assegnato anche il Nobel per la chimica. Prima e unica donna a ricevere due volte il premio, Maria riesce anche a trovare un altro elemento fantasma. Come fosse un bambino che sta per nascere, prima ancora di vederlo e toccarlo, lo battezza con il nome di polonio, in omaggio alla sua terra.
Ma è il radio a ottenere una clamorosa popolarità. Il radio ustiona la pelle ma qualcuno si accorge che brucia i tumori. Diventa una sostanza miracolosa. Le industrie ne fanno incetta, proponendo incautamente le più assurde applicazioni, dalle coperte di lana ai mangimi per le galline, dai fertilizzanti ai sigari e persino il dentifricio. La gente non lo sa, non può saperlo ma tutto ciò che consuma è diventato radioattivo. Negli anni ’30 il numero dei decessi è sufficientemente alto per accorgersi delle controindicazioni e mettere al bando il radio che oggi resiste solo in certi reparti degli ospedali.
Anche Maria Sklodowska in Curie non era esattamente a conoscenza degli effetti dei suoi esperimenti a mani nude. Tuttora i suoi appunti sono considerati pericolosi, conservati in scatole di piombo. Anche il suo corpo, dal 1995 tumulato al Pantheon di Parigi, è avvolto in una camicia di piombo, così come quello del marito. Maria muore in un sanatorio, il 4 luglio 1934, divorata dalle radiazioni.
Pierre era morto tempo prima, travolto da un calesse impazzito. Aveva 46 anni. Quando gli consegnarono il Nobel ebbe a dire: “Si può ritenere che, in mani criminali, il radio possa diventare molto pericoloso; ci si può chiedere se l’umanità saprà trarre vantaggi dalla conoscenza dei segreti della Natura, se è matura per approfittarne o se questa conoscenza potrà invece essere nociva”.
Come sia andata a finire, lo sappiamo tutti.
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