Siamo abituati ad associare l’8 marzo alla Giornata internazionale della donna, che purtroppo si è trasformata in ‘Festa delle donne’, ma in realtà fu il 23 febbraio del 1909 la prima volta in cui si parlò di rivendicazioni di genere e lotta contro le discriminazioni sessuali. Sono passati 103 anni da quel piccolo urlo nel silenzio e mi chiedo: come siamo messi? Rispondo subito e senza troppi giri di parole: malissimo. Uomini che continuano a considerare le donne come semplici oggetti da utilizzare, figli che maltrattano madri, datori di lavoro che minacciano le impiegate, mariti, compagni, amanti che uccidono senza neppure pensarci donne che hanno avuto la grande sfortuna di trovarseli tra i piedi. E noi? Noi maschi, dico, dove siamo? Cosa facciamo, cosa abbiamo fatto in questi ultimi 103 anni? Anche qui la risposta è semplice: pochino. Qualche piccola presa di posizione, solidarietà incondizionata, difesa delle donne a parole e miseri gesti, qualche manifestazione, qualche firma su change.org. Pochino. Potevamo fare di più? Dovevamo fare di più e non lo abbiamo fatto. Dovevamo innanzi tutto chiedere scusa (e non lo abbiamo fatto) smetterla di etichettare la donna (e solo la donna) con parole insultanti e inutili: vacca, troia, capra, puttana. Ma non lo abbiamo fatto, peggio: molte volte abbiamo usato quel frasario così, giusto per scherzare tra amici. Bloccare sui social tutti quelli che insultano e dipingono le donne come semplici oggetto di possesso (e lo abbiamo fatto poco e male). Insomma: è questione di cultura. E non solo. E’ questione molto semplice che parte dal rispetto. Quando comprenderemo che quella donna, quelle donne hanno la forza di resistere che noi, maschi alfa, neppure ci sogniamo, allora e solo allora comprenderemo che il mondo dalla parte delle donne sarebbe un pianeta decisamente migliore. Ci manca il coraggio per ammetterlo e quello ci manca almeno da 103 anni. E ci manca il coraggio di chiedere scusa. Noi, maschi, quelli convinti di essere dalla parte buona della vita.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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