Se io contassi qualcosa, inviterei il ministro Piantedosi a Tadasuni, a casa di Libero Manca. Ci ho scritto un libro su Libero, perché non è da tutti fare il giro del mondo in bicicletta, attraversare 25 Paesi tra Europa, Asia, Australia e America e pedalare per trentottomila chilometri in un anno e mezzo senza Gps, senza smartphone, senza poter comunicare con i familiari per mesi e senza vedere facce amiche per intere settimane.
E ovunque si vada a presentare il libro, la gente diventa matta per i racconti di questo avventuriero e i ragazzi vogliono fare il selfie con lui.
Vorrei invitare il ministro dell’Interno ad una presentazione del libro per capire se l’impresa compiuta da Libero Manca quasi cinquant’anni fa a lui sembri, oggi, una esemplare dimostrazione di coraggio cui rivolgere un ammirato applauso o piuttosto un folle tentativo di cacciarsi nei guai, sfidando gente ostile in terre sconosciute.
So bene che può sembrare irrispettoso e persino blasfemo mettere sullo stesso piano l’avventura di Libero e la morte di decine di migranti a due passi dalla Terra Promessa. Libero ha rischiato più o meno consapevolmente la sua vita ma non aveva la responsabilità di quella di altri esseri umani.
Però, quando ho sentito le parole del ministro che imputava ai padri e alle madri la responsabilità per la morte dei figli, mi è venuto naturale accostare due vicende opposte, anche se accomunate dall’elemento viaggio.
Libero non sapeva nuotare e ha girato il mondo sfidando mari e fiumi, attraversando una volta un golfo messicano su una specie di vasca da bagno che, per le quattro ore di navigazione, imbarcò acqua fin quasi ad affondare.
Libero aveva bisogno di conoscere il mondo e ci provò nell’unico modo che gli sembrasse degno: in sella ad una bici, pedalando, varcando frontiere dove veniva guardato in cagnesco da guardie armate, a volte trovando riparo per la notte a casa di sconosciuti, passando una settimana in una lurida galera thailandese.
Non scappava da una guerra né da una dittatura, aveva un lavoro, una fidanzata e una casa. E’ sopravvissuto, ora firma autografi e riceve meritati applausi.
Padri e madri dei bambini morti nel naufragio scappavano da bombe, dittature e miseria e speravano in una vita migliore.
Hanno perso i loro piccoli e ricevuto la condanna di un ministro, secondo cui “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo le vita dei propri figli”.
Forse in quei diciotto mesi di vagabondaggio Libero ha corso pericoli maggiori di quanti, sulla carta, potessero correrne i migranti imbarcati sul peschereccio. Fosse caduto in acqua, durante quella traversata temeraria sulla bagnarola, qualcuno lo ricorderebbe solo come un povero scavezzacollo vittima della sua stessa incoscienza.
Ma non sai mai come può finire un viaggio: possono essere applausi, abbracci e pacche sulle spalle, possono essere accuse e “peggio per loro” davanti ai corpi ancora caldi di gente che inseguiva una speranza.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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