Quando il Fatto Quotidiano iniziò le pubblicazioni, ormai sette anni fa, credemmo davvero che stesse per aprirsi una nuova era per l’informazione italiana. Un giornale sostenuto da un azionariato popolare, alimentato dai contributi dei lettori, senza la presenza infestante di un editore che – per quanto illuminato e liberale – porta sempre la zavorra di interessi da difendere e inevitabilmente di veti e censure. Un giornale totalmente libero, libero anche di rifiutare inserzionisti pubblicitari che, col loro messaggio, potessero confliggere con la totale autonomia della testata. Nella redazione de Il Fatto quotidiano affluirono grandi talenti del giornalismo d’inchiesta un po’ borderline, emarginati dal loro essere insofferenti a linee editoriali ed ordini di scuderia. Primo fra tutti Marco Travaglio, destinatario dell’Editto bulgaro, una delle voci più ribelli all’asfissiante monopolio mediatico imposto ai tempi del massimo potere di Silvio Berlusconi. Dopo la reggenza di Antonio Padellaro, Marco Travaglio da circa un anno è il direttore de Il Fatto e quel progetto sembra essersi pienamente compiuto: quel giornale non poteva che avere lui per direttore. Nel suo primo giorno di direzione, il sito satirico Spinoza.it scrisse: “Marco Travaglio nuovo direttore deIl Fatto quotidiano: oggi in regalo per tutti i lettori un avviso di garanzia”. Marco Travaglio è stato il mio modello di giornalista per tanto tempo, specie negli anni in cui veniva trattato come un appestato inviso al potere, per la sua pervicacia nel raccontare la verità e per il coraggio nel denunciare la schifosa commistione tra potere e informazione. Travaglio, formatosi con Montanelli, culturalmente orientato a destra, cui i berlusconiani affibbiavano, mentendo spudoratamente, l’etichetta di giornalista organico alla sinistra, non avendo altri argomenti e non sapendo spiegarsi come i giornalisti potessero essere altro rispetto ad Emilio Fede ed Augusto Minzolini. Ho letto Il Fatto per tutti questi anni. Ci trovavo quel che in altri giornali non veniva pubblicato, senza dimenticare scoop epocali come il torbido caso Ruby. Nel mio piccolo ho difeso Travaglio, anche dalla sinistra di potere che in lui vedeva un fastidioso rompicoglioni.
Da qualche mese però non riesco più a sfogliarlo e, a quanto risulta dai dati di vendita, non sono l’unico.
Mi auguravo che Travaglio, con gli anni e il crescere della sua visione complessiva dell’Italia, smettesse l’abito mentale del cronista di giudiziaria e con la sua libertà ci raccontasse non solo la corruzione, gli accordicchi, la gestione privatistica del potere, ma anche quella parte buona dell’Italia rappresentata anche in politica, che altro non è se non lo specchio fedele del Paese. Invece Travaglio ha radicalizzato la linea del giornale, estremizzando questa ricerca del losco, dell’illegale, dello sporco, credendo di trovarlo anche dove non c’è. Giornalisticamente, certe forzature sono evidenti, così come sempre più evidente è il coincidere tra la linea del giornale e le posizione politiche manichee del Movimento Cinquestelle. Travaglio è rimasto nell’animo il piccolo corrispondente de Il Giornale di Montanelli che raccontava le prime inchieste di Mani Pulite. Per certi versi questa postura si comprende e gli fa onore, perché sul piano della corruzione l’Italia non è affatto migliorata da allora. Ma io penso anche che il direttore di un grande quotidiano debba avere uno sguardo complessivo sul mondo e la saggezza di non forzare le notizie per cercare il titolo a tutti i costi. Titoli che servono per dipingere una politica dal volto immancabilmente feroce e dal carattere avido. Mi capitò, una volta, di lavorare con un direttore convinto che tutti quelli appartenenti ad una certa area politica fossero dei delinquenti. Da questo pregiudizio scaturiva un giornale che non rispettava la verità e mistificava le notizie per compiacere le convinzioni di chi lo guidava. Il Fatto Quotidiano nasceva, a detta dei suoi stessi ideatori, per difendere la Costituzione e i fondamenti delle nostre istituzioni. A me sembra che la irrinunciabile denuncia del malaffare stia degerenerando nell’antipolitica di maniera, contribuendo ad incrementare una sfiducia nello Stato che è dannosa almeno quanto la protervia di certa classe dirigente o la tanto avversata riforma costituzionale. Fatevi un giro nelle scuole, per capire quanto i ragazzi disprezzino tutto quel che riguarda le nostre istituzioni e si tengano alla larga dall’impegno politico, considerandolo cosa sporca. Io credo che anche quel che di buono la politica ci offre vada raccontato, senza pudori. E non è detto che questo buono coincida sempre con la linea del Movimento Cinquestelle, come sempre più spesso Il Fatto tende a farci credere. Credo anche che la politica non possa essere raccontata sempre e soltanto con la prosa allusiva del cronista cresciuta dentro le Procure: credo che la politica sia anche altro. Scrivere queste considerazioni mi addolora: molti di noi avevano creduto tanto in questo innovativo spiraglio di libertà, ma io credo che la missione de Il Fatto, iniziata in modo promettente, stia ora tradendo i suoi principi ispiratori. Un giornalista libero lo è tanto più quanto più si ricorda di non essere un giudice; scrive articoli, non sentenze inappellabili.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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