Non bastavano le critiche di mio padre. “Che generazione che siete!”.
Due giorni fa il rimbrotto che serve a ricordarmi di appartenere alla generazione che storici e sociologi definiscono “di merda”, e a rovinarmi i minuti pre – cena, mi arriva dal telegiornale.
Il mezzobusto mi ricorda che quelli che pagano maggiormente lo scotto della crisi, i giovani, non manifestano più. Alcuni di questi giovani li mostra il servizio.
Uno, lo chiamo Claudio, ha lo sguardo sconfortato di chi non intravede più la differenza tra il cercare lavoro e chiedere l’elemosina. Vive coi genitori. Lo dice con evidente imbarazzo e poi si giustifica : “Ma non chiedo tanto, cerco di uscire il meno che posso, sono un ragazzo buono. Meno male ho almeno lo smartphone.”
Luigi la butta sul sentimentale. “Per fortuna ci sono le passioni, se hai quelle, ancora ci puoi credere”. La maglia dei Pink Floyd che sfoggia me lo fa immaginare a sbarcare il lunario suonando in qualche locale.
Marco appare più tranquillo: “Io ci provo, al momento sono un libero professionista con partita Iva”. La cronista non demorde. “Come ti mantieni?”, chiede.
Viene colto dai classici sintomi dell’imbarazzo: balbuzie, allungamento immotivato del tempo di pronuncia delle sillabe, dita che strofinano convulsamente il volto. “Vivo coi miei genitori”.
Anna è spavalda, lavora nel campo “dell’arte e della moda” e si mantiene, dice, unendo quattro collaborazioni diverse.
Ma il trabocchetto è dietro l’angolo. “Quindi non chiedi nulla ai tuoi genitori”.
Anche Anna si gratta tra la guancia e il naso, il timbro della voce subisce un brusco mutamento. “Eeeeh … lo chiedo meno che posso”.
Chiamateci pure generazione di merda. Siamo noi stessi ad additarci con quest’epiteto, di tanto in tanto. Stavolta però gliela voglio dare una chance a Claudio che si consola con lo smartphone, e ad Anna che alla fine, sputa il rospo e confessa di dover chiedere i soldi ai genitori per i suoi piccoli piaceri.
Una possibilità io la voglio concedere, ponendo delle condizioni.
Sì, perché dopo il servizio sui giovani sfigati parte quello sulle manifestazioni ad Hong Kong.
Siamo sempre in prima linea a spellarci le mani per applaudire quando gli altri scendono in piazza. Impressionati quando in Tunisia, Mohammed Bouazizi si dà fuoco dopo che la polizia gli sequestra il carretto di merce, dando inizio alle rivoluzioni arabe.
Indifferenti quando la stessa cosa succede a Catania e quello che ci rimette la pelle, dopo il lavoro, si chiama Salvatore la Fata.
Solidali con gli egiziani nel 2011, quando ci hanno fatto credere che chiedessero la nostra democrazia e non fossero neri di rabbia per un tasso di disoccupazione da far spavento. Come il nostro. Discese in piazza per la democrazia se le possono permettere i cittadini di Hong Kong, che hanno a che fare con tasso di gente a spasso del 3%. Ma lo fanno. Noi no.
In quarta liceo la professoressa di francese entrò in classe col giornale in mano dicendo “ 4 milioni in piazza per l’articolo 18, avete visto?”.
Io, seduta in ultimo banco, pensavo all’università. I professori ci dicevano che dovevamo andarci se volevamo trovare lavoro. Oggi siamo come Claudio, Luigi, Anna e Marco ed essere precari è quasi un lusso.
Guardiamo le nostre piazze. Vuote. Sarà colpa dello smartphone?
Non voglio crederci.
Vorrei dire, gridare, adattare un celebre motto di due secoli fa ai tempi che corrono.
Disoccupati di tutto il mondo, unitevi!E non per tre ore.
E se non succederà, non risponderò più male a chi mi dirà che faccio parte di una generazione di merda, nemmeno a mio padre.
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