Quando Maradona levò il pugno al cielo e rubò quel gol all’Inghilterra avevo quindici anni. Rimasi indignato non tanto dall’umana debolezza del campione truffatore, ma dalla celebrazione del furto e dalla divinizzazione dell’imbroglio.In tutto quel che accadde dopo, io vedo oggi le dinamiche della Psicologia delle masse tramandate dalla lezione di Gustave Lebon.Era un furto, un gesto antisportivo e per me, allora come oggi, tale è rimasto: nulla di più. Ma viene ancora ricordato con l’ammirazione che si ha per una prodezza di suprema abilità sportiva.Tanto più grave perché l’autore del furto era un fuoriclasse capace, qualche minuto dopo, di disegnare una sinuosa corsa da un capo all”altro del prato per firmare uno dei più celebrati punti della storia calcistica: non aveva bisogno della scorrettezza, che il portiere Shilton mai gli perdonò.Tanto più grave se si considera che quel gesto antisportivo Maradona non lo ammise mai, se non per dire che era stato Dio a muovere la sua mano, intendendo l’onnipotente risarcire gli argentini per il torto subito alle Falkland dagli inglesi.
Dei morti, specie se campioni, bisognerebbe dir bene. Ma purtroppo io non ci riesco e posso dire di non aver mai subito il fascino di Maradona.Uomo dall’ego smisurato, abituato a cercare la ragione anche quando aveva palesemente torto, invocando in suo soccorso, a seconda delle occasioni, Dio o inesistenti complotti.
George Best l’ho ammirato di più, come uomo: non cercava di apparire migliore di ciò che era, ammetteva senza ipocrisie e persino con fierezza la sua passione per l’alcool, raccontava di aver speso tutti i soldi in donne, bevute e auto sportive e di avere sperperato quelli che gli avanzavano.
Di Maradona dicono avesse un cuore grande e non ho motivo di dubitarne. Ricordo di aver letto, nelle cronache del suo primo anno a Napoli, il resoconto di una notte in bianco, trascorsa con altri compagni di squadra, per tenere sveglio Bruscolotti, come i medici avevano ordinato perché il capitano era stato colpito duramente alla testa in allenamento.Ma non era il solo, ad essersi offerto volontario per quel soccorso: eppure il suo sacrificio di ore di sonno a favore del compagno venne sottolineato come l’atto di umiltà di un talento soprannaturale che si abbassava al livello dei mortali.Trovavo questo racconto di una retorica stucchevole e capivo che si andava costruendo il mito, ben oltre i meriti del campione.Per me l’umiltà, già da allora, era il Gaetano Scirea seduto tra i banchi di una scuola serale, assieme a tanti sconosciuti, per conseguire il diploma, qualche settimana dopo aver alzato la Coppa del mondo al Santiago Bernabeu.Per me l’umiltà è stato l’allenamento mattutino, nel giorno del suo matrimonio, del quasi quarantenne Javier Zanetti.Di Maradona dicono avesse origini umili.Non più di quanto le hanno avute decine di altri calciatori venuti dalla miseria e dai bassifondi, non più di Cristiano Ronaldo figlio di un alcolizzato o Ronaldo il fenomeno cresciuto nella desolazione delle favelas, certo meno dei tanti assi africani giunti in Europa su un barcone.Maradona, raccontò Ferlaino, rifiutò una Ferrari Testarossa di colore nero, prodotta apposta per lui, che gli era stata regalata dal presidente: non aveva l’autoradio.Era umile, ma presto si era abituato ai capricci dei ricchi.
Diego Maradona era un superbo interprete del football, vero genio per capacità di inventarsi giocate imprevedibili. Punto.Per me questo e poco altro è stato, al di là dei toni leggendari con cui lo si è voluto raccontare, pienamente comprensibili solo se limitati al suo genio calcistico: mi perdonerà l’amico Giampaolo Cassitta che a questa pagina ha appena affidato la sua dichiarazione d’amore per il numero dieci.Mi perdoneranno tutti quelli che il 30 ottobre lo commemorano con poesie e pensieri gonfi di commozione: li comprendo, ma non me ne sento coinvolto.Mi perdoneranno se considero una invenzione associare al nome di Maradona il sostantivo “riscatto”, volendo intendere che in Maradona Napoli abbia trovato lo strumento della rivincita attraverso la rivincita calcistica.Napoli ha un tale, immenso patrimonio di cultura e umanità da non aver bisogno di alcun riscatto: Napoli vince da sé. Malavita e disoccupazione, se a questo si allude, non è stato certo Maradona a sconfiggerle e nessuno credo si sia sognato di pretenderlo.
Sul campo, il Napoli vinse perché Maradona – tesserato oltre i termini del regolamento – venne pagato venti miliardi con i soldi prestati a Ferlaino dalle banche e perché le squadre di cui era diamante disponevano in quegli anni di complessi formidabili, ad iniziare dal rocambolesco portiere Garella e proseguendo poi con Ciro Ferrara, Salvatore Bagni, Fernando De Napoli, Alemao, Bruno Giordano e Antonio Careca.Erano squadre memorabili e il Napoli politicamente contava parecchio, come dimostrò lo scudetto vinto grazie alla monetina che si disse aver colpito Alemao, a Bergamo.
Per me Maradona era l’arroganza del talento innato, tanto consapevole di possederlo da poter speculare su quel dono al di fuori di ogni disciplina.Lui, sul campo da calcio, poteva permettersi di vivere di rendita, perché la sensibilità del suo tocco e la capacità di vedere gioco gli permettevano di non essere un atleta, di dribblare ogni forma di disciplina.Per questo io, in quel quarto di finale, quando Maradona alzò il pugno al cielo, mi schierai dalla parte dei difensori dell’Inghilterra.In quell’impari confronto col fuoriclasse, dotato di un talento mille volte più grande del loro, io simpatizzavo per gli onesti faticatori Shilton, Butcher e Stevens e mi immedesimai nel loro disgusto, quando realizzarono che il più grande campione del mondo era ricorso al più miserabile inganno e, per giunta, tutto il mondo lo applaudiva: perché loro erano inglesi, figli dell’impero e della Tatcher, e per quel peccato originale ogni torto e ingiustizia se le meritavano.Perdonino queste righe quelli che lo hanno amato alla follia, ma io detesto la dittatura dei sentimenti. Per i milioni di persone che hanno fatto di Maradona un monumento, ce ne sono altre che hanno visto in lui solo un miracoloso calciatore e un uomo come tanti.Riposi in pace.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design