C’è stata Cleopatra, due anni fa, e poi quel disastro senza nome dell’altro giorno. Sardegna due volte sott’acqua. Con alcune differenze.
Questa volta non è morto nessuno, e questo significa che siamo ancora capaci di imparare.
Questa volta, come ha fatto notare Nardo Marino, nessuno ha battezzato “il mostro” dandogli un nome umano. Non so perché, ma credo abbia a che fare con l’umiltà. L’umiltà di chi sa di non aver capito qualcosa di fondamentale, e si prepara a parare il colpo anziché far finta che tutto rientrerà negli schemi. Cleopatra non rientrò negli schemi e per spiegarsi meglio si portò via una ventina di vite, migliaia di oggetti, milioni di storie. Questo ciclone no. Ha ferito ma non ha ucciso nessuno. Ed è rimasto senza nome. Adamo, ricordo, esercitava il suo dominio sule mondo, che gli discendeva direttamente da Dio, dando nomi agli animali; e quelli prendevano vita nel momento in cui ricevevano un nome, la parola che domina. Questo è l’inganno a cui ci fa piacere credere. Con Cleopatra abbiamo giocato a farci ingannare e le abbiamo dato un nome sperando di farla rientrare tra le cose controllabili. Poi ci è toccato contare i morti e a questo giro abbiamo preferito non dare nomi, non dare confidenza a nessun ciclone. Siamo tornati un po’ animali, un po’ prudenti, un po’ antichi e ci siamo salvati. Per lo meno, mi piace pensare così.
Ci sono state altre differenze. Parlo per me.
Il giorno dell’alluvione, mentre il ciclone ruotava sulla Gallura, non ero a casa. La mia casa, la casa della mia famiglia, sta su un pezzo di terra dentro una piccola vallata. Negli ultimi centocinquant’anni gli uomini che ci hanno preceduto hanno costruito sul fondovalle un canale; una vadina, come diciamo noi. Gli argini sono in conci e scaglie di granito non cementato. Le spalle sono due file di lastre rettangolari. Una piccola opera d’arte. La sera che passò Cleopatra e anche La Maddalena finì a bagno, l’acqua non oltrepassò la metà dell’altezza nel canale. L’altra sera, quando sono rientrato, prima ho sentito il rullo della cascata che c’è sul confine, e mentre mi avvicinavo al ponticello mi sono reso conto della situazione: l’acqua aveva superato gli argini in più punti e completamente allagato le piazzole dell’orto. Non solo, aveva spinto tonnellate di pietre e sabbia alzando il letto fino al livello degli argini. Fortunatamente due settimane fa avevo pulito il corso liberandolo dalla vegetazione. Se non l’avessi fatto, credo, le pietre si sarebbero fermate prima e l’acqua sarebbe passata da qualche altra parte, e non ho idea di cosa avrebbe potuto fare.
Non so se avete letto “Casa Howard” di Forster. Vi assicuro che merita. È la storia di tre famiglie inglesi molto diverse tra loro. Tutto è giocato sulle relazioni, cercate o rifiutate, tra gli esseri umani che popolano le pagine. Al centro c’è una casa di campagna. Una casa che è un essere vivente, perché le case abitate, le campagne e gli orti, sono esseri viventi. La casa è il centro e su di lei ruotano gli sforzi, le paure e i desideri delle persone che si cercano e si respingono. La casa è viva.
Io la mia casa, intesa come orto, abitazione, vicinato, alberi, pozzi, vadina, rose, segni del passato e panorami che la contengono, la conosco molto bene. La vedo in sogno, nonostante ci viva, e la vedo come era. Ne conosco moltissimi dettagli, le piante, le pietre, gli attrezzi nei magazzini. Ha terrazze da coltivare, ulivi e rose; mischia la Liguria di mio nonno, scalpellino di Levanto, e la Gallura di mia nonna, casalinga di Tempio. Ci sono fichi che vengono dalle cave di Santo Stefano e rose antiche spollonate da piante vecchissime dei quartieri più in basso, dove prima finiva il paese. Alcune di quelle piante ci sono ancora. La mia casa, come Casa Howard, è un essere vivente. E siccome è viva potrebbe morire, e un giorno lo farà. L’ho capito ieri notte, quando non ho potuto andare fino in fondo all’orto perché le piazzole più basse erano sotto un metro d’acqua che per giunta scorreva.
Di cosa muore una casa? Delle stesse cose di cui moriamo noi. E allo stesso modo vive. Vive di relazioni, di storie, di scambi di idee. Di gente che entra e esce, di animali che le girano attorno e di piante che cambiano colore.
Casa Howard si apre con questa frase: “nient’altro che connettere”.
Ecco, un disastro come quello dell’altro giorno, o peggio ancora come Cleopatra, uccide e rompe le connessioni che sono la vita su un territorio: strade, reti, tessuti agricoli, storie.
La mia casa è ancora qua, connessa con l’orto e tutto il resto. Ma qualcosa, con tutta quell’acqua, sarà andata senz’altro via.
So che per tenerla in vita non devo fare nient’altro che connettere.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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