Era poco più di un vegetale. Probabilmente. E’ morto, dunque, Bernardo Provenzano, numero uno di Cosa nostra. E’ morto nel reparto ospedaliero di San Paolo di Milano dove era ricoverato da tempo. E’ morto in regime di 41 bis seppure alcune perizie lo avevano ritenuto incapace di partecipare alla vita sociale. E’ morto da detenuto perché lo Stato non ha patteggiato. E’ morto senza collaborare, senza riconoscere i propri errori, senza provare, neppure per un attimo, il percorso tortuoso della riconoscenza delle leggi di una democrazia avanzata. E’ morto dopo aver seminato morte, inutile tergiversare, inutile evocare l’umana “pietas” che si deve riconoscere a tutti. Perché non è questo il punto. Lo Stato non ha ceduto – e va dato atto al Ministro Orlando di aver mantenuto una coerenza giuridica ed etica – perché non poteva e non doveva cedere ad uno che, seppure in grave stato di decadimento cognitivo, rappresentava comunque per molti mafiosi un punto di riferimento. Lui era un criminale che aveva dichiarato guerra allo Stato per interessi propri di potere e di denaro. Non dimentichiamolo. Fu arrestato dopo quasi mezzo secolo di latitanza, la sua parola era forte come quella di Totò Riina. Lo chiamavano “binnu u trattori”, un soprannome guadagnato sul campo per la violenza con cui trattava i suoi avversari, uomini dello Stato compresi. A differenza di Totò Riina era più “scaltro” e strategicamente più accorto. Non amava il rumore delle bombe, non credeva nella polvere da sparo. Uccidere si, ma senza far troppo rumore. Così era abituato a trattare con i propri affiliati di droga e ammazzamenti, di territori da conquistare e consolidare. Era un teorico della “ripulita” voleva, cioè, rimettere i suoi soldi nel circuito pulito, immaginava i suoi uomini seduti nei tavoli buoni della politica e dell’economia. Non usava il telefono, utilizzava esclusivamente i “pizzini”, piccoli messaggi di carta che faceva pervenire a chi poi agiva in suo nome e per suo conto. Messaggi di azione e di morte. Messaggi che facevano male. Il suo arresto fu vissuto quasi come una liberazione. Quel suo sguardo beffardo, quella sua beata e finta “ingenuità” stampata sul volto non poteva e non doveva ingannare uno Stato che da anni – e con un sacrificio di sangue altissimo – provava a chiudere la partita con gente come Provenzano. L’aver sottoposto il capo dei capi al carcere duro, al regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario era la necessaria risposta di chi con la mafia e la criminalità organizzata non tratta e non può trattare. Il fatto poi che Provenzano non sia mai uscito da quel “regime” ed è morto da detenuto è la vittoria di uno Stato finalmente coerente, fermo, indisponibile a trattative dove si gioca con una falsa pietà.
E’ morto, dunque, Bernardo Provenzano. Nemico di questo paese, nemico del progresso e del vivere con regole condivise, nemico della legalità. La pietà, lasciatecelo dire, abita da altre parti. Lui, di suo, può solo sperare che qualsiasi Dio con il quale dovrà eventualmente fare i conti possa aver dimenticato. Ma non sarà facile. Per niente.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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