In molti mi hanno chiesto cosa ne pensassi della fiction su Fabrizio De André ben conoscendo il grande amore che nutro per Faber. Ho riflettuto molto se dedicare qualche parola all’argomento che è stato lungamente discusso sui social, soprattutto perché la Rai ha tagliato, nel finale, la canzone cantata nell’ultimo concerto dal grande cantautore genovese e quella canzone era Bocca di Rosa. Solo per questo l’operazione meriterebbe un bel due sulla pagella, ma il taglio non c’entra con il film e la validità dell’opera. A caldo ho subito detto che mi pareva piuttosto didascalico, attento a non fare troppo male e attento a non incidere con il pubblico pagante di Rai uno che, per antonomasia, è un pubblico più propenso a passioni misurate. Ciò che, a mio avviso, mancava all’interno del film era la passione; quella che, per dirla proprio con De André, “spesso conduce a soddisfare le proprie voglie”. Quella passione non c’era. Lasciate stare che l’attore aveva un accento per niente genovese. L’attore era dannatamente credibile dentro quel ruolo. Era la storia che non c’era ed era soltanto un compitino ben orchestrato. Prendete, per esempio, il rapporto molto duro e schietto che De André ha avuto con il padre: dalla fiction tutto questo non emerge. Sembra, piuttosto, che il genitore assecondi tutto ciò che fa il figlio seminando qualche piccolo rimbrotto tra un incontro e l’altro. Eppure quel rapporto sanguigno ha generato moltissime visioni (penso che “canzone del padre” sia un vero e proprio duello con il genitore vero) e moltissimi “scazzi” di entrambi che non sono emersi. Sarebbe stato bello che la decisione di non bere più promessa al padre fosse giunta alla fine di un percorso duro, come è stato per davvero ed invece non è accaduto. Troppi riferimenti semplicistici e poca attenzione alla ricerca del perché Fabrizio scrivesse determinate canzoni. Le scelte musicali molto pasticciate non collimavano temporalmente con il racconto e ad un certo punto pareva fosse una gara tra la moglie cornuta e felice e la compagna felice di cornificare. E’ mancata la magia di Genova, quella dei carruggi, quella che faceva da sponda a tutte le storie di Fabrizio De André. Qualche sardo si è lamentato del sequestro di persona. Quel sequestro purtroppo c’è stato e io ho avuto modo di conoscere, in carcere, tutti i sequestratori. L’album dedicato a quel sequestro è forse uno dei momenti più alti raggiunti da Fabrizio De André insieme all’altro lavoro che è “Storia di un impiegato” completamente dimenticato dal film e che meritava invece, insieme alla “buona novella”, qualche battuta politica in più. Ma la storia di un anarchico, su rai Uno e prima delle elezioni, probabilmente non poteva che essere edulcorata. Gli attori sono stati, contrariamente a molte critiche lette sui social, molto bravi e credibili. La storia da rimandare. Per fortuna mi tengo stretto le sue canzoni che raccontano il vero Faber, quello che nessuno può modificare e plasmare. Insomma: era solo un film. De André, quello vero, è cosa altra ed è bello pensare che dove finiscono le sue dita debba in qualche modo cominciare una chitarra.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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