Il mare tutto conosce. Perché tutto parte da quelle parti. Anche il fuoco. Almeno sembra. In quella giornata calda e ventosa dove le persone fin dalle prime ore pensano al mare, aspettano e sperano il mare. Ma non tutte ci vanno. Il mare osserva e disegna destini. Sono offuscati gli occhi del mare e quel vento non aiuta. Lo si capisce da subito che è una giornata diversa. Lo si capisce dal cielo che si colora di forte e di denso. Lo si capisce dagli sguardi di chi, dentro quell’impasto denso, ci vede la morte ballare. Il mare cammina e guarda, ma non interviene.
Dicono che le fiamme partirono dal mare. Furono mani di uomini stolti ad animarle da qualche spiaggia gallurese. Forse da troppo lontano. Forse. Il mare è vita ed unisce ma, a volte restituisce corpi e silenzi. Il fuoco ha la stessa dimensione dell’acqua. Quando è troppo diventa cattivo, corrode e divora tutto. Tutto. Anche le pietre.
Il mare tutto conosce. E osserva. Quelle lingue lontane che aggrovigliano il paese. Passa per Tempio Pausania fino ad arrivare nelle campagne di Bortigiadas e di Aggius, sino a camminare sulla collina di Curraggjia. Da quelle parti non si vede il mare e neppure si sente. Il vento del deserto arriva e si appiccica alle cose. E’ una ventosa assassina. Quel vento trasporta le fiamme partite dal mare e comincia a disegnare sentieri di morte. Nove morti e quindici feriti. Il 28 luglio del 1983.
Io camminavo sulla spiaggia affollata, lontano dal rosso, davanti al mare. Ad ascoltare le onde e osservare Alghero che sonnecchiava lontano. A guardare quel cielo e vederlo più denso senza comprenderne il vero motivo.
Nove morti sono una strage. Ci fu il suono delle campane a raccogliere gli uomini, le urla e le sirene. Tutti aspettavano quegli uccelli d’acciaio gonfi d’acqua ma non erano tempi. Non c’erano i Canadair che camminavano a pelo dell’acqua a cercare lo scontro con quel fuoco. Quegli elicotteri che svolazzavano senza produrre nessun rumore perché era il fuoco a vincere su tutto. Sugli uomini e sulle cose.
Io guardavo il mare. E lui, in silenzio provava a raccontarmi la sua immensità e l’impossibilità di poter camminare travolgendo il fuoco e poter raggiungere Curraggjia. Lo aveva già fatto stato milioni di anni orsono perché tutto nasce dal mare e tutto si modifica. E tutto si dimentica in questa terra aspra e gialla. Sono passati trentadue anni da quella terribile estate del 1983. Avrei cominciato a lavorare a Novembre, a Tempio, lo stesso anno. Ho percorso la strada della fumosa tutti i giorni dal Novembre 1983 per due anni. Ogni giorno osservavo alberi scuri e muti, silenzio mangiucchiato da lacrime solidificate. Era una foresta nera e scura. Come i cuori di chi, quel giorno visse dentro quel fuoco. Io, gallurese e sardo, quei morti di Curraggjia me li porto sempre appresso, nello zaino della memoria, sempre più pesante.
Giampaolo Cassitta
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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