Quando qualcosa che hai amato tanto si sbriciola, si polverizza, i ricordi salgono a galla – al livello del mondo cosciente – in modo disordinato. Ma salgono. Quando ho visto le immagini del Nepal sbriciolato dalla forza della natura, tutto il ricordo è venuto su insieme, in modo caotico e doloroso.
E chi ama la montagna lo sa, lo sa perfettamente, cosa significa il Nepal.
Per risparmiare sul viaggio si prendeva la PIA, Pakistan International Airlines. Scalo a Lahore, sosta di 7 ore e cambio di aereomobile. Sbigottimento nel vedere che lo zaino non viene vomitato dal nastro di trasporto bagagli. Panico. Tutto ciò che serve per il mio trek in solitaria sull’Annapurna è lì dentro. Mi sento nudo, spaesato, perso. Stanchezza del viaggio e fuso orario complicano la vita alla lucidità.
L’operatore del Lost and Found come una sfinge di fronte a due agitatissimi turisti australiani a cui era toccata la mia sorte. Semplicemente li ignora. E’ il mio turno: contare fino a 100, respirare lentamente, grande sorriso. Calma. Il mio incipit è “Excuse me, Sir”. Il “Sir” apre lentamente la finestra dell’indifferenza sfingea, 20 dollari la spalancano. 15 minuti dopo il mio zaino riappare miracolosamente integro ai miei piedi.
A Kathmandu la fila al controllo passaporti è rapida. Tre bergamaschi stanno di fronte a me e aspettano qualcuno. Socializzo. Devono fare in bici il tratto che collega la città con Lhasa: 10 giorni intensi. Io no, andrò ad Ovest: Pokara, Dharapani, e Thorung Phedi, fino ai 4500mt.
I tre vengono intercettati dalla persona che aspettavano. Un italiano che da anni vive a Kathmandu e gestisce un’agenzia di turismo. Mi guarda, lo guardo. Lo saluto, mi sorride e risponde: “ma itta sesi, sardu”? Quasi svengo dal ridere. Mario, nato a Ossi (o Tissi; su questo non giurerei), emigrato a Roma, licenziato dalla ditta presso cui aveva lavorato per oltre 20 anni, decide di rientrare e vivere nel suo Nepal, visitato da ragazzo, quando tanti occidentali come lui andavano a cercare Buddha fumando l’oppio del Laos a buon mercato.
Kathmandu è bellissima solo nel centro e in poche altre isole felici: Durbar Square era un gioiello di architettura templare. Su quasi tutti i templi si poteva accedere in tranquillità, sedersi su uno degli alti gradini e ammirare in basso il brulicare di persone intente a far mercato. Il tramonto rendeva tutta l’entropia degli scambi più lenta e ordinata: l’intreccio di vacche, motorini, bambini, donne e uomini, diventava meno caotico. Era più piacevole la sera, Durbar Square. Ora non c’è più.
Per arrivare in cima della collina dove sedeva lo Stupa di Boudhanath bisognava fare quasi mille gradini. Ché è cosa da poco per chi andava in Nepal non per cercare Buddha o l’oppio, ma per il treking… Infatti, la fatica non era legata alle scale ma alle scimmie. Ti avvisavano prima di iniziare a salire: prendi un bastone nel caso ti attacchino. Possono anche mordere.
Per paura delle scimmie o per mancanza di fiato, in cima ci arrivi stanco. Ma la vista della città da Boudhanath è cosa immensa, cosa che rende tutto più leggero e accettabile: anche il monaco che alla base del più grande Stupa al mondo vende coca cola sotto la classica insegna rossa. Aveva ragione Polanyi: il mercato si mangia tutto e non ha paura né rispetto per alcunché di umano, o di sacro.
A Pashupatinath, sul fiume Bagmati, cremano i morti. Qui è di casa Shiva. L’odore della carne umana che brucia è senza aggettivi. E’ troppo, non ci sono. Mi siedo vicino ad un ghat a guardarne una. Con me una ragazza tedesca. Tutto è arancione: tre ragazzi bagnano il sudario con l’acqua del fiume e cospargono il loro caro con dei fiori. Un uomo accende la pira e sale un fumo bianco. La ragazza tedesca si alza e vomita.
Torno in città con un risciò, da Mario. Si ascolta diversamente, lo spazio, in risciò. Lo si annusa in profondità e i colori sono più colorati. Ci si può abbandonare. Ché chi conosce le città asiatiche sa quanto poco questo miracolo possa accadere in mezzo al traffico.
Mario mi aspetta con la moglie. Lo saluto come fanno lì, da sempre: namasté, “mi inchino a te”. Lo avevo imparato velocemente, con l’animo in punta di piedi, consapevole di essere ospite di profonda culla religiosa. Mario mi guarda, sorride sotto i grossi baffi e risponde: estathé! Andiamo a cena a mangiare dal bhat, il piatto locale, e mi spiega: mica crederai che gli atei stanno solo tra i cattolici, vero?
La mia guida dell’Annapurna trail è ancora viva. Ieri l’ho cercata su questo social e l’ho trovata. Mario non lo so, spero ce l’abbia fatta.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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