Pigliaru at studiau in Cambrige e si biit: nd’est torrau a bruncu de susu cancarau.
Stiff upper lip, ddi nant in inglesu.
Nel mondo anglosassone, il segnale più importante dell’appartenenza alla classe dirigente: il segno esteriore della flemma, raggiungibile solo dopo aver atrofizzato il labbro superiore.
Forse è per questo che non riesce a parlare in sardo.
Penso che la sua elezione a Presidente della Sardegna rappresenti veramente una svolta cruciale nell’involuzione subita dalla nostra isola a partire dagli anni Sessanta, quando i genitori sardi hanno smesso di usare la propria lingua con i figli.
Durante il dibattito elettorale Pigliaru, con una sfrontatezza che rasentava l’onestà intellettuale, ha detto di non avere imparato il sardo “perché nessuno glielo aveva insegnato”.
Avesse aggiunto: “Ma parlo il sassarese!”…
Ma non l’ha fatto.
Eppure–grazie a Ugo M.–è stato eletto.
Così abbiamo un Presidente che ci rappresenta e che presenta come se fosse un evento naturale, ineluttabile, quella che è unicamente la sua mancanza di volontà di imparare il sardo e di appropriarsi di un’identità sarda.
Benit mali a fueddai in sardu cun su bruncu de susu cancarau.
Gli farebbe perdere la flemma e tutta l’aria da membro della upper class.
Nel mentre Pigliaru ha ricevuto il mio libro Le identità linguistiche dei sardi e quindi dovrebbe sapere di non poter più usare quella scusa meschina per giustificare il suo rifiuto dell’identità sarda.
E una giustificazione simile è stata accampata anche da una mia lettrice che, visibilmente offesa, ha scritto su Facebook:”Io non so parlare sardo, a mala pena lo capisco, conosco molti modi di dire, quelli della mia zona, mi piacerebbe perche’ considero il sardo, anzi le lingue sarde, una lingua bellissima, anzi tante bellissime lingue, e una parte di me che pero’ non mi e’ stata insegnata. I miei genitori lo parlavano, avevano la seconda elementare e pensavano che se loro non sapevano esprimersi in italiano noi figli avremmo dovuto farlo e ci hanno mandato all’universita’, ora mia figlia conosce niente il sardo moltissimo italiano e molto inglese. I miei genitori non sono stati sardi? Lo erano piu’ di te, hanno fatto da veri sardi quello che ritenevano, nel bene e nel male, meglio per i loro figli. E non tu ne’ altri dovrebbero permettersi di dir loro che non sono stati sardi“.
Insomma, quello che la mia lettrice incazzata, e lo stesso Pigliaru, non spiegano è chi gli abbia impedito di imparare il sardo, se non se stessi.
Ho ripetuto fino alla nausea di essere io stesso partito esattamente dalla loro condizione di monolingue in italiano scarciofato di Sardegna, ma che a un certo punto mi sono messo a imparare.
Perché loro non l’hanno fatto?
Domanda retorica, ovviamente.
La domanda vera è: quale trauma, vostro o dei vostri genitori, vi impedisce ancora di assumere un’identità sarda?
Perché non mettere in discussione la violenza fatta a voi o ai vostri genitori?
La signora incazzata crede di aver ricavato dei privilegi dalla sua mutilazione linguistica: penso che esistano donne disposte perfino a difendere l’infibulazione.
Anzi, esistono, visto che sono donne coloro che la praticano sulle bambine.
Per fortuna, questa signora linguisticamente infibulata non è stata eletta a rappresentarci: non le passa neppure per l’anticamera del cervello che i suoi genitori l’avrebbero potuta allevare bilingue in sardo e in italiano o che lei stessa avrebbe potuto impadronirsi del sardo.
Talmente interiorizzata è la violenza che questa donna ha subito.
E Pigliaru?
Ripeterebbe oggi, da Presidente dei sardi, la giusticazione della sua ignoranza militante del sardo?
Mancano pochi giorni a Sa die de sa Sardinnia, avrebbe tutto il tempo di prepararsi.
E allora sfido Pigliaru: Si ses omine e si ses sardu, custa die faedda in sardu!
Ma andat bene su tataresu puru, eh!
E Inviti tutti i sardi a parlare in sardo con tutti, amici e sconosciuti, al lavoro e per strada.
Inviti i sardi a trasformare un vuoto rito in un giorno di orgoglio e coscienza nazionali.
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