Si può parlare del suicidio di un quattordicenne? E, soprattutto, cosa possiamo dire? Mi occupo da qualche anno di disagio giovanile, di scelte a volte dolorose, a volte stemperate da accondiscendenze pericolose, ma davanti ad un fatto così tragico non so mai cosa dire. Perché, in realtà, non c’è proprio niente da dire. Il problema, semmai, è l’enfasi che ha avvolto questo terribile gesto, amplificata dal fatto che il padre del ragazzino fosse il sindaco del paese. Che non aggiunge e non toglie assolutamente nulla alla storia e trasporta tutto sui binari di una cronaca che, terribilmente, gioca dentro i binari dell’emozione, dello sgomento, dell’incredulità. Retoriche scritte milioni di volte e sempre valide per costruire attimi di pausa e raccogliere tutte le lacrime nascoste dentro la dura corazza delle quotidianità. Ma non serve per provare a capire e a dipanare ciò che è del tutto incomprensibile. Quello che Cesare Pavese chiamava “vizio assurdo” si scontra con una realtà forse cinica, ma reale: quando si muore si muore soli. E quando si sceglie di morire non ci sono spiegazioni razionali, chiare, definitive. Il gesto di un quattordicenne ci fa riflettere, certo. Ci fa sentire più fragili, ci restituisce mille paure, ci racconta che il mestiere di genitore non è semplice, come non lo è quello di amico, fratello, amante, compagno. Tutti potevamo provare a capire ma – ne sono convinto – non sarebbe bastato. A volte si arriva troppo presto o troppo tardi. A volte non si arriva a comprendere perché un ragazzo di quattordici anni decida di porre fine a quella che poteva essere una lunga e radiosa esistenza. A volte ci si attorciglia dentro milioni di domande e si finisce per colpevolizzare tutto: la televisione, il telefonino, l’amico che lo ha tradito, un amore non corrisposto. Come se fosse semplice, come se fosse il risultato di un’equazione di secondo grado. Nella nostra esistenza non c’è mai un risultato scontato e chiaro. Non ci sono soluzioni identiche per tutti. Quel ragazzo ha compiuto un gesto abnorme, un gesto che ha bloccato tutto, ha reso tutto nero il grigio che c’era intorno e ha posto fine al pulsare della vita. Non chiediamoci il perché e non proviamo neppure a biasimare e biasimarci. Dovremmo ascoltare di più i nostri figli. Probabilmente è così. Ma chi vi dice che, pur ascoltandoli, riusciremmo a decifrare il linguaggio delle loro parole, dei loro gesti e dei loro silenzi? Non è facile fare gli adulti, soprattutto se siamo passati tra l’infanzia e l’adolescenza e l’abbiamo dipinta con i nostri colori che altri non hanno compreso, anche se hanno tentato, irrimediabilmente e inutilmente, di decifrare.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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