“Siria, autobomba nel nord: almeno sessanta morti”. L’ho appena letto nel serpentone di notizie che scorre in fondo allo schermo, mentre su SkyTg24 va in onda un servizio sul derby di basket di Milano. Aspetto l’edizione seguente del telegiornale, per vedere se quei sessanta morti siano nei titoli. Nei titoli c’è l’emergenza maltempo con i sette barboni morti di freddo, c’è l’ultimo discorso di Michelle Obama, c’è il possibile colpo di scena sul delitto di Garlasco, c’è lo spettacolare derby di pallacanestro a Milano, c’è il gossip sulla morte di George Michael. Ma i sessanta morti in Siria non ci sono. Se volessimo giudicare la gravità di un attentato basandoci sul numero delle vittime, penso, sarebbe molto più grave della strage di Berlino o di quella in Turchia. Lo sappiamo benissimo come funzionano le notizie, non fingerò indignazione e non celebrerò processi ai giornalisti: i morti ci toccano di più quanto più ci sono vicini o quanto più vicino consideriamo il loro mondo al nostro. Quelli siriani ci sembrano morti lontani e non meritano un titolo al telegiornale. Però io credo che una vita e una morte valgano allo stesso modo, ovunque un uomo e una donna vengano uccisi per mano di un altro uomo. Se vogliamo un mondo migliore, non credo si possa rinunciare a questo principio.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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