In un’epoca dove tutti si è iper connessi, presenti oltremodo sui social, destinatari di centinaia di messaggi su WhatsApp, si muore d’inedia. E’ accaduto a Macerata e sembra una storia dimenticata e da dimenticare, inghiottita tra le fauci della pandemia e della guerra. Una città di poco più di 40.000 abitanti dimentica, come d’incanto, tre persone. Il primo era il padre, unico sostenitore della famiglia. Era lui ad occuparsi del figlio costretto in sedia a rotelle e della moglie malata e allettata. Era una famiglia piccolo borghese, benestante, conosciuta da molte altre persone. Il padre viene colto da malore e muore, in casa. I familiari non riescono a comunicare con nessuno, probabilmente dalla loro posizione non possono utilizzare neppure il telefono per poter avvisare qualcuno. Muoiono di fame e di sete nell’indifferenza totale di tutti. Avevano, è vero, diradato i contatti anche con i familiari, ciò non toglie che qualcuno poteva rendersene conto di una famiglia sparita da giorni, settimane. Li hanno trovati senza vita dopo alcuni mesi. Una sorella della donna si era allarmata dopo alcune e sporadiche telefonate. I vicini di casa credevano fossero partiti. Se ne sono andati così, senza produrre nessun rumore, passando, come direbbe il grandissimo Atzeni, sulla terra leggeri. Però a questa poetica levità vi è da contrapporre la nostra assoluta insensibilità, la poca attenzione per gli altri, il nostro modo di vedere l’universo come un ammasso di storie usa e getta. Si parla molto, soprattutto in Sardegna, di spopolamento, di abbandono dei piccoli paesi per andare a vivere nelle grandi città dove i servizi sono sicuramente migliori e dove tutto è a portata di mano. Solo apparentemente. Siamo così occupati a partecipare alla sagra dell’esposizione sui social che non riusciamo a vivere più la vita reale. Nei salotti virtuali ridiamo, scherziamo, abbiamo centinaia e migliaia di contatti da qualcuno chiamati amici ma siamo soli. Non c’è nessuno quando due ragazzine pestano una coetanea davanti a Piazza Matteotti, in pieno centro a Cagliari, non c’è nessuno quando qualcuno insulta un anziano seduto su una panchina, quando dei ragazzi distruggono i vasi di fiori di una piazza di quella città tanto connessa, tanto vicina e tanto calorosa. Quell’agglomerato di silenzi, di gente non disposta a parlarsi realmente, di gente indaffarata ad occuparsi di un nulla ovattato dalla solitudine sociale. Quei tre corpi inermi, morti di fame e di sete in un paese tra i più avanzati del mondo ci dice una sola cosa: non c’è più attenzione per gli altri e le storie diventano soltanto una lattina di aranciata succhiata con la cannuccia e gettata nel primo cestino dei rifiuti. Nei paesi – ma anche nelle grandi città – una volta esisteva la dimensione quartiere o vicinato. Tutto si consumava in quel grande cortile dove tutti si conoscevano e si controllavano in maniera positiva. Se la signora del quarto piano non apriva le finestre subito ci si allarmava e si inviava un bambino a bussare alla porta e chiederle se avesse bisogno di qualcosa. Oltre ad occuparsi degli altri ci si preoccupava, si prendevano in carico le vite e le storie di quel palazzo, di quel rione, di quel quartiere. Quando si discute di “paesità” si parla anche di questo, soprattutto di questo, perché le persone hanno una storia ed è bello poterle sentirle tutte, come un racconto corale. Questa vita pronta a masticare qualsiasi notizia e dimenticarla subito dopo è il prototipo del “qui ed ora”, dove i tre poveri corpi di Macerata saranno dimenticati in meno di un attimo. Al massimo, se qualcuno ha postato la notizia sui social, ci si limiterà a scrivere un R.I.P. o aggiungere una faccina con la lacrima. Poi tutto continuerà nell’insipienza cui siamo abituati da anni. Potremmo preoccuparci di chi ci sta a qualche metro di distanza ma non lo facciamo, impegnati come siamo a discettare su qualche bacheca del litigio di due persone anziane, ridicole e inutili: il nulla sociale.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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