Ho incontrato Edgar Lee Masters grazie a Fabrizio De André e, a quel punto, ho finito per amare entrambi. Mi resi subito conto – e questa volta il merito è di Fernanda Pivano che scoprì, grazie a Cesare Pavese, il poeta statunitense – che le rime rivisitate dal cantautore genovese erano state praticamente riscritte. De André aveva “reinterpretato” quelle strane e cupe storie e, attraverso le sue parole e la musica, ne ha poi ridisegnato l’anima. Il disco diviso in due parti (l’invidia e la scienza) è un condensato di rara bellezza e di scrittura “altissima”. Ci sono passaggi che son diventati piccoli classici imparati a memoria da molte generazioni e divenuti dunque anch’essi poesia.L’album, uscito nel 1971, lo ascoltai per la prima volta nel 1973. Avevo quattordici anni ed erano i tempi – per me e per la mia generazione – di Baudelaire, Rimbaud, Barthes, Pasolini.Quel disco rivoluzionava i miei punti di vista, rimetteva insieme I fiori del male, Le ceneri di Gramsci e gli elementi di semiologia.Gettai tutto all’aria e cominciai a credere che la linea demarcata da Fabrizio De André fosse quella più bella: difficile e maledetta, intima e intensa.Ridisegnare le storie e, soprattutto, poter scrivere di persone poco famose, alcune brutte, altre bellissime, invidiose e invidiate, poeti sballati, ubriaconi, puttane e circensi, figli di Caino e di Giuda, gente dimenticata ma non da dimenticare. Era la mia nuova scelta e da quel disco è nata la curiosità per un certo tipo di storie e di persone.Sono oramai convinto che i miei racconti, le storie, i romanzi che sono stati pubblicati partono tutti dal crinale della collina dove c’è chi è stato ucciso in una rissa e chi è uscito già morto di galera. In quella infinita sponda laica ci sono – e ci saremo un giorno – tutti: quelli morti per errore, chi per aborto e chi per troppo amore, chi è stata uccisa in un bordello e chi perita per uno strano male. Sulla collina, ci sono i milioni di soldati caduti in mille battaglie e con inutili medaglie, ma soprattutto c’è Jones, il suonatore. Sono oramai convinto che molte mie storie siano il risultato dell’idea magnifica di Lee Masters, quando scrive del suonatore ripreso da De André: “Per Cooney Potter una pila di polvere o un vortice di foglie volevan dire siccità, a me pareva fosse Sammy Testa-rossa quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor”.Si scrive per raccontare mondi e si scrive per raccontare punti di vista. Si scrive perché è importante, necessario, tirare fuori da un semplice vortice di foglie il ricordo più bello di una donna per la quale, magari, ti sei innamorato. Scrivere è metafora, è simbologia, è bellezza. E, per dirla con De André, scrivere è anche suonare per tutta la vita.Non al denaro non all’amore né al cielo, insieme all’Antologia di Spoon River, sono stati sul mio comodino per anni e ancora oggi ascolto quelle canzoni e rileggo la raccolta di poesie abbandonandomi a quel vortice di polvere. Ho sempre creduto che, partendo da piccole storie, sia possibile raccontare momenti fantastici della vita di una persona. Non è vero che non li abbia vissuti, ma è verosimile che potesse viverli. Così, come Lee Masters, che guardando croci sulla collina ha saputo rianimare persone estrapolandole da una vita a volte intensa, a volte piccola, insignificante, triste e maledetta, ho pensato che tutti gli esseri umani debbano essere racchiusi in un libro che racconti la loro storia originale, personale, unica e comunque fantastica.Diceva Umberto Eco che laddove non puoi teorizzare devi narrare. E non è detto che devi costruire biografie precise. D’altronde, neppure i Vangeli raccontano una verità provata: è più probabile che la narrazione, in certe parti, abbia modificato alcuni assetti reali e abbia lasciato qualcosa alla fantasia.Tutto ciò che non si può sapere si può immaginare. Vale solo nella Letteratura, ma è il punto più bello e più intenso di chi scrive storie. Ci siamo abituati a ritenere che Renzo e Lucia, per quanto li abbiamo letti e amati, siano realmente esistiti e si siano comportati davvero in quel modo. Siamo davvero convinti che quell’Addio ai monti, presente nei pensieri di Lucia, sia davvero “più o meno” quello che voleva esprimere la nostra eroina? Siamo davvero sicuri che il colonello Aureliano Buendìa, davanti al plotone d’esecuzione, avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio? E, ancora: siamo davvero così certi che il commissario Montalbano pensi tutto ciò che Camilleri gli ha suggerito per anni?Ogni morte è un dolore per qualcuno e ha un peso specifico diverso.Tuo padre, tua madre, tuo fratello, la persona amata, sono perdite terribili che determinano una lunga elaborazione del lutto dalla quale se ne esce dopo moltissimo tempo. Ci sono delle morti che ci colpiscono, quella di un papa, di un attore, di un cantante, di un poeta, e morti che ti inorridiscono, come un omicidio efferato, un attacco di terrorismo, la caduta di un aereo, un gravissimo incidente stradale. Siamo portati a rifletterci, a credere che quella sia una grave perdita, ma poi ci rendiamo conto che in questo incredibile mondo tutto continua a girare.Non avremmo mai immaginato di trovarci dentro questo strano “vortice di polvere” che più che ricordarci la gonna di Jenny ci ha catapultato in uno di quei strani film catastrofici che andavano per la maggiore negli anni Settanta (ricordo di aver visto ai miei tempi – e un po’ me ne vergogno – Airport ’75 ). Non avremmo mai immaginato di contare i morti in uno strano pallottoliere digitale a forma di mondo, a controllare i pallini rossi che in maniera esponenziale e a una velocità vorticosa aumentavano e divoravano città, regioni, stati, continenti. Il conteggio non è finito e saranno molti, troppi, quelli morti per Coronavirus. Siamo stati, per giorni, in attesa di un bollettino che ci informasse sullo stato dei decessi del nostro paese e non ci siamo resi conto che ogni giorno, per giorni, settimane, mesi, morivano dalle trecento alle cinquecento persone. Era come se fossero caduti tre dc9 Alitalia al giorno.Tutti i giorni. Ma dopo il primo stupore ci siamo come anestetizzati. I morti sono tanti, troppi. Un’immensa Pompei divorata da una lava silenziosa e invisibile. Ecco, Pompei è stata un’altra metafora che mi ha portato a riflettere attonito e vicino alla collina. La morte “sul colpo”, come si usa dire, è quella che non ti dà spazio, non ti concede di salutare nessuno. E questi morti hanno avuto anche la sfortuna di non essere accompagnati nell’ultimo viaggio dai propri amici, parenti, dai loro amori. In un attimo, sono spariti e sono diventati numeretti e cerchietti rossi in una mappa terribile e maledetta.Per un periodo non avevano neppure nomi. Come se fossero appestati, dannati, reietti. Come se fosse, in qualche misura, una loro colpa essersi infettati ed essere deceduti contagiando anche altri. Eppure avevano diritto all’essere ricordati, avevano ed hanno l’assoluto diritto a far parte della nostra vita. La morte è un passaggio, una pausa, una nuova strada, un ritornare alla polvere, una speranza. Chissà. Però è bello pensare che dove finiscano le nostre vite, per dirla con De André, debba in qualche modo cominciare una chitarra. Perché la morte fa parte del pentagramma musicale della vita.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design