Quando Moser era Francesco Correva l’anno 1985… Ero una bimbetta sgarrupata di ben 7 anni e, figlia unica, la cocca del babbo. Che mi portava OVUNQUE! La nonna aveva il frigo che partiva 24/24? Dai, che hai le dita piccole e arrivi dove non arrivo io! La zia aveva la lavatrice che invece di lavare, sporcava? Dai, che hai le dita piccole e arrivi dove non arrivo io! Lo zio aveva l’imballatrice del fieno che si incruccava? Dai, che hai le dita piccole e arrivi dove non arrivo io! C’era da infilar gli ami per andare ad anguille? Dai, che hai le dita piccole e arrivi dove non arrivo io!
Mi portava però anche agli eventi storici della piccola realtà trevisana in cui vivevamo. Ricordo il camion con una gru enorme, venuto a metter su il tetto all’Ossario di Nervesa (costruzione parallelepipeda, sopra il cocuzzolo di una collinetta che sovrasta l’ameno paesello: praticamente il deposito di Zio Paperone senza monetine…). E nel 1985, i Mondiali! Di ciclismo! Su strada! Passavano sullo zerbino del ristorante di mia zia, sorella del babbo. E il suddetto genitore, che comunque lavorava a turni in Zanussi, mi ci portò. È doveroso aprire una parentesi sul ristorante di zia. Siamo nel cuore degli anni ‘80, in un paesino di provincia. Qua i paninari non prendono piede. Ai tavoli ci sono gli arzilli diversamente giovani col torneo di briscola e scopa, armati di ombrette. Al bancone c’è la fauna locale, ottimamente descritta dal buon Benni: l’Esperto, con opinioni incrollabili e intoccabili su qualsivoglia argomento, e il Figo, munito di Fiat 127 rossa, impianto a metano e sedili ribaltabili automatici, su tutti. Naturalmente nessuno usa i nomi propri, nemmeno le madri! I soprannomi spaziano da Grisù a Sgipper, passando per Stìcchio, Jerry e Piereto*. Nelle sale del ristorante ci sono le perline ai muri e i piatti del buon ricordo, il tutto è ammantato da una foschia densa che non ha nulla da invidiare, ma nemmeno da spartire, con la nebbia della Val Padana. Aaah, l’aria prima del divieto di fumo nei locali pubblici…
Ma torniamo all’evento ciclistico. Ora, a 7 anni non è che fossi granché alta. Vedevo per lo più gambe e culi. Però ero mingherlina e tra una chiappa e un ginocchio LI VEDEVO! Vedevo quei campioni che mio papà e suo zio nominavano sempre, quando guardavano la Liegi-Bastogne-Liegi, o il Giro delle Fiandre, o il Tour, o il Giro d’Italia. Poteva esserci qualsiasi evento catastrofico al di fuori della cucina, ma dalle 17 in poi, orario in cui partivano le dirette su RaiTre, la tv veniva requisita e la tavola occupata dai bicchieri e dalle bottiglie. Il cronista veniva “gentilmente” corretto e coadiuvato nell’esercizio delle sue funzioni con commenti intercalati da bestemmie ed eresie che fungevano da congiunzioni, aggettivi, pronomi, complementi oggetti… E nessuno osi dire che non fossero educativi per una bimbetta di 7 anni! Son venuta su bene, io, CHEAVACA!
Gli stessi miti che nominavano nientemeno che in televisione, sfrecciavano ora davanti a me, lunghe strisce colorate da quanto andavano veloci. Moreno Argentin (bronzo in linea), Francesco Moser e poi LEI! La mamma volante, che io immaginavo munita di ali, Maria Canins! Straordinaria sugli sci, inforcata la bici vinse la prima edizione del Giro d’Italia Femminile, macinando un successo dietro l’altro. Sul Montello, nel 1985, si portò a casa la medaglia d’argento in linea.
Una volta a casa, in sella alla Graziella della Graziella (la bici di mia mamma, hanno lo stesso nome), via a menar pedali, testa bassa e culo alto, con la voce del mio babbo: “Va pian, Maria Canins, che te te spela i denòci!”
*Saluto Grisù e il fratello Pieréto, Sgipper e il fratello Sticchio, e mio zio Jerry.
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