Studiosa di Filosofia? La vera liberatrice moderna dell’eros che è in tutti noi? Per carità! E ora non mi sogno di rompervi le balle con tutte le altre cose interessanti e politicamente corrette su Moana Pozzi. Vi voglio soltanto raccontare di quella volta che la conobbi cortese e umilmente abbigliata in un camerino del Teatro Verdi di Sassari, per rivederla dopo un quarto d’ora vestita solo di cerone e nelle mani di porcaccioni scatenati che in platea se la passavano da una poltrona all’altra. Sentite, diamo per scontato che sappiate tutto sulla sua strana vita e sulla sua strana morte. Sennò guardatevi Wikipedia, scoprite che razza di personaggio fosse e così capirete perché quel giorno degli anni Ottanta in cui venne annunciato il suo spettacolo di porno spinto nel teatro Verdi, come responsabile della Cultura nel mio giornale, ne fossi piuttosto interessato. E non era perché un po’ di porno nel tempio della lirica sassarese fosse chissà quale violazione che faceva notizia. Anche perché questa storia del tempio della lirica sassarese è un pallosissimo luogo comune. Insomma, è vero che al Verdi dal 1884 ai giorni nostri (con una breve interruzione dopo l’incendio del 1923) di lirica se ne è fatta molta, ma anche di riunioni di pugilato se ne sono fatte molte su quel palco, e pure di jazz, circo equestre, prestidigitazione, avanspettacolo, prosa, manifestazioni politiche e altre forme di spettacolo tra cui anche il porno, quando arrivò il suo momento. Credo sia degli anni Cinquanta la vicenda di un grande prestigiatore internazionale che, per trasformare certe stelle filanti in un piatto di spaghetti, chiamò un volontario dal pubblico. Nel teatro strapieno aderì alla chiamata tale Monello, noto vagabondo che come tutti i vagabondi stentava ad assicurarsi un pasto al giorno. -Signore, salga sul palco, ecco… venga qui, guardi queste stelle filanti e mi dica: lei se lo mangerebbe ora un bel piatto di spaghetti? -Cazzu se me lo mangeressi! Il teatro venne giù dagli applausi e il mago ottenne comunque un grande successo anche se il numero venne guardato con scarso interesse rispetto a quello suscitato da Monello. A proposito di cazzo, un ricordo personale ce l’ho riguardo a un musical italiano ispirato all’americano Hair e andato in scena verso la fine degli anni Sessanta. Roba di pacifismo hippie che a noi sessantottini non è che ci facesse stravedere, ma comunque era trasgressivo, si parlava male degli americani in Vietnam e circolava voce che tra le penombre di certe scene ci fossero anche alcuni nudi (femminili e maschili: però erano soprattutto i primi a suscitare interesse), circostanza quest’ultima che noi adolescenti politicizzati e intimamente arrapati tacevamo per non apparire qualunquisti. Insomma, questo spettacolo circolava in Italia e si apriva con una provocazione sulla quale si basava tutto il lungo filo sovversivo del prosieguo. Un capellone usciva sul proscenio dal sipario ancora chiuso e con tono aggressivo diceva al pubblico: “Cazzo!”. Pare che ovunque questo esordio avesse suscitato uno stupito mormorio che secondo copione l’attore commentava con aspre battute sul moralismo del pubblico, dando inizio allo spettacolo vero e proprio. Qui a Sassari però successe un casino perché quando il capellone guardò protervo noi pubblico e disse “cazzo!” e poi tacque attendendo il mormorio di sconcerto, nessuno si sognò di mormorare. Dopo qualche attimo di silenzio da parte dell’attore, cominciammo piuttosto a guardarci l’un l’altro perplessi come a dire -Va bene, e allora? Il poveretto ignorava che “cazzo” a Sassari non è una provocazione e non lo era neppure tra la nostra inquieta generazione che rifiutava in quegli anni le trite tradizioni cittadine ma non sino al punto di considerare il lemma “cazzo” come fossimo italiani qualsiasi. “Cazzo” a Sassari è come to get: vuol dire tutto. Lo si dice per esprimere gioia e dolore, approvazione o dissenso, noia o partecipazione. Mio nonno, a esempio, manifestò il proprio stupore per l’improvviso ingresso nella sua bottega di fabbro del mitico arcivescovo Arcangelo Mazzotti, piombato lì per ordinargli personalmente un cancello, dicendo al prelato -Cazzu, monsigno’, chi imprubisada! E non ci fu verso per tutta la sua lunga vita di convincerlo che non era il modo più acconcio di rivolgersi a un quasi santo. Insomma, al nostro composto silenzio l’attore hippie si impappinò e andò avanti stentatamente perché avvertiva che noi in buona fede ci chiedevamo -Cazzo cosa? Però questa cosa di Hair con il porno al Verdi c’entra poco. Mentre c’entra di più Sylva Koscina. Nella prima metà degli anni Settanta il Verdi annunciò uno spettacolo con la nota attrice dove si diceva che sarebbe comparsa nuda e anche di più. Alla Nuova, dove già lavoravo, in tre o quattro organizzammo una fuga dal lavoro, promettendo ai rispettivi capi che per mezzanotte saremmo ritornati in servizio. Non è che fossimo arrapati come adolescenti, eravamo tutti ultraventenni, ma ci incuriosiva questa virata porno della soft erotica che ci aveva fatto sognare quando eravamo bambini. Per me, a esempio, Sylva Koscina era l’accenno di mutanda che mi aveva fatto sognare le mille volte che avevo visto e rivisto, dalla quinta elementare sino alla seconda media, “Ercole e la regina di Lidia”, con Steve Reeves. E scoprire che oltre quella mutanda c’era qualcos’altro suscitava in me una comprensibile curiosità. C’era molto altro, in effetti. L’attrice ne diede una dimostrazione pressappoco a livello di ambulatorio ginecologico lavorando con una colorata sciarpa boa piumata e aiutata da un ballerino di colore piuttosto effeminato che le zampettava intorno e al quale Muccinelli, supertifoso torresino di un’epoca in cui ancora gli ultrà non esistevano, rivolse clamorosamente dall’ultima fila l’epiteto, insieme razzista e sessista, “negrofrodita”. Tornammo tutti al lavoro silenziosi e un po’ tristi per la certezza che quel mistico e tremante afflato della mutanda della Regina di Lidia si era ormai spento per sempre. Insomma, la sto facendo troppo lunga. Era per dire che con tutti questi precedenti se in quel giorno dei tardi anni Ottanta inviai un redattore a intervistare Moana Pozzi e a fare un pezzo sul suo spettacolo non era perché noi sassaresi ci stupissimo delle trasgressioni alla lirica nel teatro Verdi. E’ che lei era interessante come personaggio per tutto quello che si diceva su di lei in contrasto con il suo singolare mestiere. Il redattore tornò dopo qualche ora confermando la vulgata. -Colta e intelligente, persino spiritosa. Appare quasi timida, ma si vede che è risoluta e coraggiosa. Siamo invitati allo spettacolo di stanotte e le farebbe piacere se prima andassimo a trovarla per salutarla e parlare un po’ della Sardegna. Accettai l’invito e quella sera venimmo ricevuti in camerino da una giovane graziosa e posata, vestita di una tuta da ginnastica accollata e troppo larga che le appiattiva il corpo. Nella conversazione non le scappò una parola o un’allusione meno che castigata. E’ vero che era colta, sapeva anche di storia della Sardegna, se non mi sbaglio fece pure un’allusione alla “fusione perfetta” del 1847 o a qualcos’altro che riguardava i nostri rapporti con il Piemonte: ma senza ostentazioni, con molta naturalezza. Tanto che quando uscimmo dal camerino per prendere posto in platea mi chiesi che razza di noioso rosario sarebbe stato questo decantato spettacolo porno. Ve lo dico in due parole, che rosario fu. Lei uscì sul palco già nuda, tanto che io e il mio collega, entrambi della generazione dello spogliarello delle maggiorate nei film con Totò, ci chiedemmo stupiti cos’altro le restasse da fare. Era circondata da un gruppo di boys che le danzavano malamente intorno mentre lei si muoveva qui e là sul palco. Poi arrivò il “vero” spettacolo. Moana percorse una passerella che era stata gettata a scavalcare il golfo mistico e all’improvviso, nuda e cruda, fu in platea dove invitò le prime file ad allungare le mani verso di lei. C’era un pubblico che te lo raccomando. Qualcuno per allungare meglio le mani se la sedeva in grembo. Lei per un po’ ci stava e poi riprendeva il giro e cambiava poltrona. A un certo punto ci riconobbe e venne verso di noi con lo stesso sorriso timido e composto che aveva poco prima mentre in camerino parlava di storia della Sardegna. Il mio collega e io scattammo in piedi e fuggimmo come un sol uomo verso l’uscita più vicina, non senza prima voltarci per un’ultima occhiata e scoprire la vera funzione dei nerboruti boys: quella di trarla in salvo e riportarla sul palco quando il pubblico diventava incontrollabile. E fu come per Sylva Koscina: in questo caso non c’era nessun mito erotico infantile distrutto ma tornammo al giornale ugualmente malinconici.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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