Le rondini più basse sfioravano le cime degli alberi senza farsi male, mentre quelle più lontane e alte vedevano chissà fino a dove e somigliavano a grossi insetti neri che grattavano scorazzando il cielo quasi bianco. Da troppo tempo Piero Donetti sognava di fermarsi un attimo per coricarsi nell’erba. Non si ricordava l’ultima volta. Forse da bambino, dopo una corsa matta per una mela granata più grassa delle altre, maciullata dalle stesse mani che se la contendevano. Mancava, a Piero, la tranquillità del suo paese; quel mondo così lontano che era dietro quei monti, da qualche parte. La notte a volte aveva sognato di pescare o di lavorare con suo padre, o che stava accompagnando qualche amica che tornava dal fiume, con la scusa di aiutarla a portare la cesta con i panni lavati. Ricordare quel profumo di pelle e di lavanda lo aveva tenuto in vita negli ultimi due anni. Perché in questo tempo nuovo non c’erano stati giochi, né amori, né bellezza. Solo una specie di ardore freddo, di intelligente cattiveria accompagnata da incubi e nausea ogni volta che un’arma incontrava una vita separando per sempre il prima dal nulla che seguiva. Era la guerra. Ma quella sosta così strana Piero Donetti non se l’aspettava. Tutto intorno Maggio era il solito bollir di vita che conosceva bene. Sulla faccia cotta dal sole, anche se aveva una specie di torpore come quando danno l’etere, sentiva che lo punzecchiavano steli e spighe e riconosceva, tra le macchie di colore intorno a lui, l’avena selvatica, il grano e una tempesta di papaveri. In quella strana posizione, col braccio destro infilato da qualche parte sotto la schiena e il braccio sinistro libero di muoversi, si grattava la faccia e il petto e cercava di spostare le piante più vicine per vedere un po’ più in là, per rendersi conto se si avvicinava qualcuno. Non si ricordava dov’era il fucile. Non si ricordava quasi nulla, veramente. Non si ricordava perché era lì, perché era solo, perché si era fermato. All’improvviso capì che aveva sete. Istintivamente provò a spostare il braccio destro per prendere la borraccia che teneva su quel fianco ma gli costò talmente tanta fatica che riuscì solo a tirarlo fuori da sotto la schiena lasciandolo fermo nella nuova posizione, con un fitto formicolio dalla spalla alle dita, come di sangue che gli tornava a posto. Chiuse gli occhi che ora gli bruciavano. C’era stata una lunga marcia solitaria, questo si sentiva di dirselo, che doveva portarlo da qualche parte insieme ad altre persone. Chissà quando e dove. Adesso era qui. Prima non c’era mai stato. Non capiva nulla, Piero. Si era fermato, era chiaro. Ai soldati succede di fermarsi; a volte ti fermano la stanchezza oppure l’istinto, altre volte la disciplina. Ci sono volte che non puoi farne a meno e anzi, se non ti fermi rischi. La vita, innanzitutto, o la licenza che aspettavi. Ma non era il caso di preoccuparsi. Se si era fermato un motivo c’era. Ora non lo ricordava ma c’era. La vita con gli altri soldati non l’aveva mai accettata. Aveva incontrato persone di ogni tipo, alcune erano anche diventate amici o mezzi amici e i superiori non erano più severi del padre quando dirigeva il lavoro nel campo o col bestiame. Eppure c’era qualcosa in quella durezza che lui non sopportava, come se fosse finta, come se sapesse di non poterla capire. Ma non aveva potuto scegliere, sapeva questo. Gli era toccato di darsi alla patria per fermare il nemico, anche se questo voleva dire andare avanti fino a perdersi e non tornare mai. Questo era il senso. Invece, con le spighe che gli pungevano la faccia con punture sorde, con quel braccio che non rispondeva come dovrebbe fare un braccio di soldato, lui finalmente si era fermato e da fermo stava scoprendo con un po’ di sorpresa che quel senso non c’era più. Era andato via con gli ordini che non riceveva da giorni. Era rimasto impigliato sotto i mucchi di soldati spenti. Non sentiva più la patria, lui, ora che l’aveva lasciata –per poco, aveva pensato, per poco- varcando la frontiera quella mattina. Ma non era scomparsa la patria: è che si erano liquefatti i confini e l’idea di nemico e quella di vittoria. Con la mano sveglia posò due dita sotto la mandibola alla ricerca del suo battito e lo trovò rapido e leggero. Sentiva il fiume, Piero, lo sentiva bene perché in quel punto scendeva basso su sassi tondi e lisci che, dove il letto ingobbiva, affioravano. Immaginava la schiuma che si formava sicuramente laggiù, dietro l’erba che li nascondeva entrambi. Doveva essere un fiume uguale al suo. Anzi, se aveva letto bene le carte prima di perderle, poteva essere il suo fiume bambino, ancora pieno di lucci, ancora libero dai caduti, molti chilometri prima di attraversare la valle dove lui era nato e sarebbe tornato anche ora, se avesse potuto mettersi in marcia. E però, alzarsi non poteva, andare via nemmeno. Gli venne come il desiderio di chiedere al fiume cosa sarebbe stato. Sentì un odore di fico. Con le sole forze che riuscì a trovare piegò la testa indietro e vide un ramo già carico di frutti acerbi, mosse il braccio vivo, agguantò il ramo e si girò su un fianco aiutandosi con le gambe come poteva. Lungo il fiume che finalmente gli riappariva, nascosto da erba più alta della sua vide un piccolo giaciglio con un mucchio di cenere fumante. Un paio di metri più in là c’era una divisa più chiara della sua e da essa spuntavano due stivali. L’erba si era mangiata il resto del nemico ma a Piero quegli stivali bastarono. C’era stato un lampo, due fiamme gemelle e due scoppi ravvicinati, uno più forte dal suo fucile e uno più basso, che era arrivato con una spinta calda passandogli una spalla. Poi era caduto. Poi si era perduto. Poi si era ricordato che voleva essere felice e che lo era stato. Infine gli tornò in mente il primo consiglio che aveva ricevuto quando erano partiti, lui e gli altri: spara per primo, non aspettare, non ci pensare. Spara. E ora. Ora la patria aveva un nemico in meno e un caduto in più, i confini erano nuovamente tracciati e la sua valle era tornata a sembrare lontanissima. E anche Nina. Mollò per sempre il ramo di fico lasciandolo libero e rotolò nuovamente nella posizione in cui si era ritrovato. Il fico ondeggiò per qualche istante, poi danzarono un poco soltanto le foglie e poi tutto si fermò. Le rondini più alte vedevano forse il fiume ormai adulto mentre andava verso la valle di Piero.
Le più basse accarezzavano i papaveri, senza far loro del male.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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