Nel luglio del 2005, esattamente dodici anni fa, mi trovavo a Pavia. Il Policlinico San Matteo è una struttura sanitaria di eccellenza, una città nella città, con tanto di strade e mezzo pubblico che ti trasporta gratuitamente nei vari padiglioni di quel vasto complesso dove tutto, almeno allora, funzionava alla perfezione. Bruno era ricoverato in “medicina” per la “mobilizzazione delle cellule staminali” in vista di un eventuale autotrapianto di cui per fortuna non c’è stato bisogno. Medici alla mano, personale gentilissimo e disponibilissimo (la caposala era sarda, di Bono, emigrata in Continente ventiquattro anni prima), pazienti da tutta Italia, soprattutto dal meridione.
Una cosa mi colpì: i pasti venivano distribuiti da una suora, una donnona che ricordava Ave Ninchi. Spingeva per il corridoio il carrello luccicante in acciaio inox dove erano incassati i vari contenitori e, sul ripiano, i piatti e le posate. Si fermava alla porta delle stanze e distribuiva le pietanze secondo gli ordini che erano stati comunicati la sera precedente. Tuttavia capitava che qualcuno, ricoverato la mattina, non avesse potuto fare la “prenotazione” e allora si cercava di accontentare secondo i gusti e la disponibilità.
Proprio quella mattina era stato ricoverato nella stanza accanto a quella di Bruno un calabrese, in condizioni critiche. Aveva un brutto male e, me lo aveva confidato la moglie, erano stati indirizzati lì perché quel reparto era considerato uno dei migliori d’Italia. L’uomo era visibilmente sofferente e la moglie cercava di invogliarlo a mangiare sbirciando tra il menù che la suora distribuiva alla ricerca di qualcosa che potesse piacergli.
-Sorella, ce l’ha un po’ di brodino? -No. È tutto prenotato. -E un budino?- chiede timidamente la donna, una donna anziana, semplice, con il volto segnato dalla stanchezza di un viaggio in treno durato oltre dodici ore, e dal dispiacere per le condizioni del marito. -No! – risponde seccamente la suora, e tutto si sarebbe concluso lì se non avesse continuato: -Ne avete poche di pretese…cosa pensate, di essere al ristorante?? Venite dalla Sicilia e pretendete di avere tutto quello che vi piace? Ohè qui siamo a Pavia, eh! Prendete quello che trovate e ringraziate pure!!!
Eh, no, eh! Io vengo dalla Sardegna e quelle cose non le posso sentire!
-Senta suora, – quasi le urlo avvicinandomi, -lei non si deve permettere di trattare le persone in quel modo, dovrebbe chiedere scusa, e non solo per l’abito che porta, ma per il lavoro che sta svolgendo. -Lei non s’immischi, non c’entra niente!- mi risponde seccata. -Eh no, mia cara, io c’entro, eccome, perché quello che fa è pagato anche con le mie tasse, sia che si venga dalla Sardegna, sia che si venga dalla Sicilia, sia che si venga dalla Lombadia o dalla Calabria, come la signora.
Non gradisce, la suora, e sta per continuare quando si avvicina un medico che dal suo ambulatorio in fondo al corridoio aveva assistito alla scena: -Sorella, stia calma e non si permetta più di fare certe affermazioni. Cerchi per quanto possibile di accontentare i pazienti, è il suo lavoro! Ché i pazienti si chiamano così perché patiscono, non perché hanno pazienza. Quella la dobbiamo avere noi! La suora simil Ave Ninchi china la testa e prosegue per borbottando a distribuire il pranzo agli ammalati.
Allora i migranti eravamo ancora noi….
Nata quasi a metà del secolo scorso, ha dato un notevole impulso, giovanissima, all'incremento demografico, sfornando tre figli in due anni e mezzo. La maturità la raggiunge a trentasei anni (maturità scientifica, col massimo dei voti) e la laurea...dopo i sessanta e pure con la lode. Nonna duepuntozero di quattro nipotini che adora, ricambiata, coi quali non disdegna di giocare a...pallone, la sua grande passione, insieme al mare.
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