Ha ragione Michele Serra o hanno ragione gli internauti – pessimisti e di sinistra – che non hanno accettato quanto il giornalista ha scritto nell’amaca del 20 aprile scorso su Repubblica? Era proprio necessario che a seguito del vespaio sollevato il compagno Serra rispondesse con un vero e proprio editoriale oggi, su La Repubblica? Ed è necessario che se ne continui a discutere anche da queste parti? Direi sommessamente che è importante e, forse, necessario. Michele Serra ha posto un problema serio che da sempre nei salotti buoni di questo paese (di destra e di sinistra) è stato messo sotto il classico tappeto: dire che ignoranza e violenza camminino dentro le strade degli strati sociali più bassi è un’ovvietà da sempre dimenticata. E dire che oggi come ieri i poveri continuano a riempire le carceri e i riformatori può sicuramente far male – e fa male – ma anche questa è una grande verità. Ho conosciuto in 37 anni di lavoro migliaia di detenuti e, credetemi, il censo in carcere esisteva ed esiste e pochissimi appartengono alla classe sociale più ricca. Il potere non giudica i potenti, cosa vecchia e ancora valida in tutte le latitudini del mondo finora conosciuto. Serra ha sbagliato forse nei modi e nel voler raccontare questa storia dentro la pillola dell’amaca. Ha speso molte parole, oggi, nel suo lungo editoriale per provare a scardinare ciò che, personalmente, ritengo un grave errore: giustificarsi sulla brevità “poiché (e sono parole di Serra) scrivendo una nota di 1500 caratteri, si è costretti a evitare la zavorra dell’ovvio, non ho aggiunto che esistono fior di liceali screanzati e arroganti, e borgatari gentili e brillanti che ogni professore vorrebbe avere nella sua classe”. Ha torto poiché è da anni che l’amaca è diventato il buongiorno di chi guarda a sinistra (di una certa sinistra, almeno) è da anni che è citata, ricordata, copiata e condivisa nei social tanto che lo scorso natale ne è stato ricavato un corposissimo libro che raccoglie le sue amache dal 1992 al 2017. Quella rubrica è “la rubrica” e quelle 1500 battute sono diventate un target ripreso anche da Gramellini prima nella Stampa e oggi sul Corriere, ma che ricordano il buon vecchio compagno Mario Melloni che su l’Unità teneva, in prima pagina, la rubrica firmata con lo pseudonimo di Fortebraccio. Personalmente ritengo che non sia classista denunciare le diseguaglianze ed affermare che: “il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza” e non è irreale scrivere che: “non è nei licei classici o scientifici, (ma) è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore”, lo diventa, semmai, quando decidiamo di utilizzare la rubrica da 1500 battute – spazi inclusi – per provare a discutere di un problema vecchio come il mondo occidentale: la differenza di classi, l’impossibilità per alcuni di poter utilizzare l’ascensore sociale. Ecco l’errore di Michele Serra: essere stato sintetico, stilisticamente imperfetto e, probabilmente, un filino “snob”. Almeno questa è stata la percezione (anche mia, a dire il vero) di chi ha letto la sua amaca. E non è vero che lui non può rispondere a tutti coloro che lo hanno criticato perché – secondo il suo punto di vista – hanno utilizzato la piazza virtuale per dire altro senza minimamente entrare nel vivo della sua analisi. L’amaca non era un trattato di sociologia, non era un’analisi sui massimi sistemi e, paradossalmente e quindi contrariamente a quanto sostiene Serra stesso oggi su Repubblica, non ha evitato la zavorra dell’ovvio ma ha detto cose ovvie, terribilmente ovvie. Questo è il punto, chiedersi se è vero che gli ultimi sono sempre dalla parte della classe sociale meno abbiente (una volta si diceva proletariato e sottoproletario) e se è vero che in carcere ci finiscono (oltre agli extracomunitari) persone appartenenti a quella classe e se è vero che a scuola, quasi sempre, al liceo ci finiscono un certo tipo di adolescenti e difficilmente troveremo figli appartenenti ad una classe “dimenticata”. Lo dico da persona che ha frequentato l’istituto tecnico per ragionieri, lo dico da una persona che ha utilizzato, con applicazione e tenacia, l’ascensore sociale. Lo dico da figlio di operaio, da nipote di un nonno praticamente anarchico, lo dico da uomo di sinistra: quello che dice Michele Serra è terribilmente vero. Però non bastano 1500 battute (e neppure queste 4900) per un’analisi seria che la sinistra, quella vera, dovrebbe cominciare a fare per comprendere le ragioni di una sconfitta che, a quanto pare, sembra sempre più a vantaggio di una destra furba, risoluta, populista, che non riconosce le classi ma che sa incanalare la rabbia degli ultimi. Da questo dovremmo cominciare a ripartire. Se ne abbiamo voglia e se vogliamo, ancora, guardare a sinistra. Quella dalla parte del cuore.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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