La velocità con cui Michela Murgia e l’Espresso hanno rilanciato sulla questione “Matria” ci dice soprattutto una cosa: entrambi hanno fiutato la vendibilità dell’argomento e lo stanno cavalcando. Sono tra coloro che hanno perculato la proposta della Murgia, ricorrendo all’espediente del tormentone. E non mi riconosco nella lettura che lei dava, ieri, sull’Espresso, per descrivere chi la critica. Michela Murgia ha proposto di usare la parola “Matria” al posto di “Patria”. Non è stata chiarissima, alternando a mio avviso riflessioni utili e supercazzole, ma la sostanza del suo discorso è che “Matria” si presta a veicolare meno effetti collaterali dannosi di “Patria”, per quanto riguarda l’esercizio delle relazioni tra persone e territori (l’ho fatta semplice per come l’ho capita). Il fatto è che la Murgia ci sta proponendo un oggetto ibrido, a metà tra il vocabolo e la categoria, e dà per scontato che l’esperimento funzioni. Il suo ragionamento è che le parole siano strumenti di potere. Io dico che le parole diventano strumenti di potere quando le si usa strumentalmente, come fa lei e come replicano, all’opposto, i nostalgici del Duce. Diversamente le parole non sono strumenti, sono parole e fanno parte del linguaggio naturale, altrimenti detto “madre lingua”. Evocando i suoi detrattori, la scrittrice chiama in causa nazionalisti, maschilisti e misogini. Avrebbe dovuto citarne molti altri, per esempio chi non sopporta che gli si cambino le parole a tavolino e avverte ogni cambiamento artificiale come una profanazione che odora di autoritarismo, come quello dei poliziotti spagnoli che urlano agli avventori di un locale a Barcellona: “qui si parla spagnolo”. Gli scarti di linguaggio, introdotti artificialmente, sono autoritari quanto l’idea di patria che si vuole combattere. Una cosa è regolamentare l’uso delle parole in determinati contesti (è un reato insultare e diffamare), altra cosa è pretendere di staccare le parole dalle cose per creare combinazioni nuove che la storia naturale di una lingua non ha preso in considerazione o ha scartato. Proprio perchè, come dice la Murgia, siamo un Paese che è nato dal meticciato, insospettisce ogni proposta di sezionare il linguaggio mettendolo sul letto di Procuste di un’ideologia (qualunque essa sia), per veicolare valori particolari all’interno della comunità dei parlanti, la sola autorizzata a stimolare l’evoluzione della lingua con gli apporti spontanei provenienti dall’uso quotidiano . In questo senso “andiamo a comandare”, “no pago afito”, “non ho l’età”, “è qui la festa”, “e poi ci troveremo come le star”, si pongono come fenomeni candidati a modificare se non la lingua almeno il modo di usarla e forse, ma non necessariamente, le idee (è una questione di selezione, come in ogni processo evolutivo). Al contrario, la proposta di scambiare a tavolino “patria” con “matria” si pone come un artificio un po’ supponente, dannoso per la causa che dovrebbe perorare. Tutti i possibili esperimenti analoghi (Patrix, Cleomatra, Babbuth ecc), sono comici proprio perchè deformano il vocabolario, creando dei cortocircuiti tra parole e idee, cortocircuiti causati dall’artificialità della modifica: un po’ come se si mettessero a un ippopotamo le zampe di un cavallo, perchè sono più eleganti. Ma la reazione perculante di molti utenti social, pur rivolta al vero punto debole della proposta stessa, la sua inapplicabilità, viene confusa con reazioni di matrice diversa: e la Murgia è la prima a cadere in questo tipo di confusione.
Contrariamente a quanto afferma la scrittrice, “cercare parole” non è un lavoro politico, è semmai la metafora di un lavoro politico, e l’errore che alla Murgia sfugge è proprio la confusione dei piani, che non sono il maschile e il femminile, ma la parola come forma di vita e la parola come oggetto di riflessione. Si può e si deve dare spazio a questo secondo momento, senza autoritarie intrusioni nel primo. La Murgia non se ne è accorta, o almeno lo spero, ma ha fatto una proposta che, per il suo carattere manipolatorio, è quanto di più riduzionistico e maschilista si possa concepire.
L’articolo dell’Espresso si chiude con una precisazione che rilancia la proposta iniziale: patria e identità, si dice, sono concetti che si legano e si sono legati in modo nefasto. La Murgia suggerisce di scivolare dal piano dell’identità (intesa come qualcosa di monolitico e intrinsecamente divisivo perché presupporrebbe la sola comunanza tra identici) a quello dell’appartenenza, che suggerirebbe in modo più immediato l’accoglienza della differenza. Mi limito a notare che “appartenenza” deriva da “parte”, e come tale è potenzialmente altrettanto divisivo, presupponendo “parti” a cui, per definizione, “si appartiene” o “non si appartiene”. A meno che non si voglia giocare anche qui con le parole e modificare il termine “parte”, sostituendo “pa” con “ma”. Ne viene fuori “Marte”, il ché, per quella che sembrava l’intenzione di partenza, non è un risultato incoraggiante.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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