La scena è il condensato della vita umana: Michael cerca il suo vecchio amico Nick, a Saigon. Lo trova in un luogo terribile dove si pratica la roulette russa e spera di salvarlo. Ma lui, Nick, l’amico di sempre non lo riconosce, neppure quando gli evoca la famosa frase con il quale andavano alla caccia del cervo: “Un colpo, un colpo solo”. Quel colpo, in quella macabra e terribile scena partirà dalla rivoltella e Nick si sparerà alla tempia, davanti a Michael.
E’ la scena più drammatica, il condensato più alto che sia mai stato prodotto con un film. Qui non servono Dario Argento e Romero a costruirci la paura. Questo non è un film. O, almeno, non lo sembra. Avrò visto centinaia di volte questa scena (un cult che trovate tranquillamente su youtube) quando il grandissimo Robert De Niro, con la pistola alla tempia dice a Nick: (un bravissimo Ctristopher Walken) “Ti voglio bene Nick” e spara, con la consapevolezza di morire, dimostrando un senso di amore e di amicizia altissimo per quel compagno perso dentro un dopoguerra stupido e stronzo, come solo il Vietnam è riuscito ad essere per i ragazzi statunitensi di un’intera generazione. La pistola, invece, non emette nessun rumore. La roulette russa continua. E a quel punto tutti sappiamo, tutti immaginiamo che Nick morirà, che quella richiesta gonfia di affetto “Andiamo, Nick, viene a casa, parlami Nick,” non servirà, come non servirà distoglierlo da quel gioco dove Nick si è ficcato, da quell’inferno orribile e immenso che è stato il Vietnam, da quel terribile senso di colpa che ha segnato molti uomini, da quell’odore di Napalm che qualcuno ha continuato a sentire negli anni. A nulla vale navigare tra i ricordi, di quando cinque amici che lavorano in un’acciaieria in Pennsylvania la domenica si dedicano alla caccia del cervo. Non c’è più niente negli occhi di Nick, nei pensieri di Nick tutto è nero, denso, inutile. Quel suo amico non viene riconosciuto se non alla fine, nell’ultimo istante prima di esplodere il colpo fatale: “un colpo solo” dice Nick, “un colpo solo” ripete Michael e tutto sembra ritornare, tutto sembra doverli riportare alla vita, alla fabbrica, alla caccia del cervo. Poi Nick, sorridendo – di un sorriso che solo in quel film son riuscito a vedere così immenso e solitario – si avvicina la pistola alla tempia e spara. Un colpo solo. La roulette colpisce. Nick muore. Come il sogno americano, come la spensieratezza degli anni. Come l’innocenza. Se qualcuno dovesse chiedere di raccontare gli Stati Uniti d’America del 900 forse basterebbero due film a fotografarne l’essenza: Il cacciatore di Michael Cimino e Apocalypse now di Francis Ford Coppola). Michael (come il nome del protagonista del cacciatore) Cimino è morto il 2 luglio 2016 all’età di 77 anni. E’ stato un grande regista. Un visionario, soprattutto. Uno che ha contrastato le major statunitensi, uno che ha voluto raccontare ossessivamente la stessa storia: quella lotta interiore tra un bene che non ha mai i colori tersi e semplici e un male che naviga in acque sempre difficili da dominare. Certo, avrete letto molto su Cimino, sull’anno del dragone, sulla sua amicizia con Clint Eastwood e con Oliver Stone. Certo, avrete letto che era un tipo stravagante, assurdo, ossessionato dai dettagli. Però, alla fine, sarà ricordato come il grandissimo regista di un film impossibile da riscrivere, impossibile da rigirare, impossibile da non rivedere. “Il cacciatore” è il capolavoro assoluto. Un film dove il bene e il male camminano sulla stessa tavolozza ed è difficile scegliere perché, per entrambi c’è solo un colpo: un colpo solo.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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