“La Signora Madre è morta, l’avevo dimenticata da qualche tempo, la sua fine me la restituisce alla memoria, magari solo per poche ore, meditiamoci sopra prima che ricada nel dimenticatoio. Mi chiedo se le voglio bene e sono costretto a rispondere: No, le rimprovero di avermi castrato, poca cosa davvero, ma insomma… mi ha trasmesso la sua complessità ed è più grave, perché soffriva di alcalosi e allergie, e io ne soffro ancora di più di lei e i miei malanni non si contano, e poi.. e poi mi ha messo al mondo e io professo l’odio per il mondo”.
Questo è l’incipt di Post Mortem, un incredibile e densissimo libello scritto da Albert Caraco pochi giorni dopo la morte della sua Mater Gloriosa, una “madre divoratrice” divorata dal cancro, la cui diffidenza verso l’amore raccomandò nel figlio un egoismo straripante che lo allontanò dalle emozioni, dalle donne, dalla vita, dalla stessa madre. Infatti. “l’allievo restituisce poi le lezioni al maestro e questi alla fine dovette riconoscersi battuto..”
Alla madre si addebita molto, spesso tutto ciò che in sé si riconosce vivo argento, che risplenda di luce solare o riflesso di Luna. Ecco perché il tema non è facile, non lo è mai stato. E non lo è stato sicuramente neanche per Moretti.
Ma in questa occasione la sua risposta argomentata alla complessità che ogni figura materna porta con sé e nella relazione con i figli è stata equilibrata e sobria. Cioè, emotivamente neutra. “Mia madre” non è un gran film, non è uno di quei lavori che ti rimane appiccicato alle pareti dell’animo, uno di quei pasti difficili da digerire per mesi o anni, uno di quei tarli che entra in qualche stanza dell’intelletto e si siede comodamente in un angolo, aspettando che qualche altra parte di te entri a guardarlo in faccia e a discutere la sua essenza. E non lo è perché il riserbo, l’intimità e il cuore profondo della relazione tra questa donna e i suoi due figli non emerge mai con vivo colore, ma solo come pennellata di acquerello. E non sono i colori di Turner, quelli che sceglie il regista.
E’ la madre di Margherita, più che di Nanni. E sono sue, più che di Nanni, le ansie, le difficoltà e i malesseri di una donna-regista “in cerca di autore”. E sono le tre donne del film a dominare la scena: madre, figlia e nipote, e non i maschi, di cui si salva solo qualche estemporaneo affacciarsi di genialità nella interpretazione di un John Turturro in crisi di identità.
E quella frase che la Buy ripete in continuazione ai suoi attori del film che sta girando – un film che racconta un’altra crisi, quella del lavoro in Italia- quella frase, “devi recitare ma anche essere a lato, cioè essere anche te stesso recitando”, sembra cucita a pennello per Moretti che, in definitiva, a lato del tema è stato, per tutto il film.
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