A Sassari, in via Manno, c’è un monumento che non è aperto al pubblico perché è parte di un’abitazione. E’ lo studio del filosofo Antonio Pigliaru, rimasto immutato dal giorno della sua morte, nel 1969. Tra poco verrà accuratamente smontato, rimosso dalla bella palazzina disegnata negli anni Venti del Novecento dall’architetto Angelo Marogna e ricostruito fedelmente in un locale del municipio di Orune, dove Pigliaru nacque. Librerie e libri, scrivania e sedia, carte, quadri, manifesti e ogni altro mobile e oggetto verranno ricollocati nell’ordine e nella posizione in cui si trovano ora. E così il Comune di Orune, grazie alla generosità di Giovanni, Francesco e Amelia, i figli di Antonio, potrà onorare, pubblicamente, la memoria del grande pensatore sardo. Penso che a Orune, se non altro per un fatto geografico, sarà soprattutto il monumento all’autore della “Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”, l’opera più conosciuta di Pigliaru, quella che nel 1959 sul piano scientifico portò a livello nazionale il problema del banditismo sardo. Il vero monumento a Pigliaru è il segno che ha lasciato nel mondo della cultura e poco importa dove questo magnifico ricordo fisico verrà ricollocato. Ma mentre l’altro giorno visitavo questo studio lasciato dalla moglie Rina e poi dai figli come era nei giorni dell’ultima dialisi di Antonio, marzo del 1969, un po’ irrazionalmente pensavo a quanto sarà necessariamente snaturato fuori da quella casa di via Manno. L’appartamento dove, lui vivo, si entrava senza bussare per parlare di idee. Un contenitore materiale di pensiero che finirà lontano dalla città che ha visto quel pensiero maturare nella sofferenza e nella gioia. Ma Sassari – forse anche questo è segno di un declino che come tante altre cose Pigliaru aveva capito- non ha richiesto questo monumento, mentre Orune è ben felice di averlo. E quindi varchi quella porta ed entri nella sua vita, scandita da tre piccoli ritratti incolonnati su un fianco della libreria di fronte alla scrivania. Tre visi che voleva vedere, evidentemente, ogni volta che sollevava gli occhi dal lavoro: Blaise Pascal, Giovanni Gentile e Giuseppe Capograssi, il filosofo del diritto al quale dedicò la sua “Vendetta”. Ed eccola, “La Vendetta”, prima edizione di Giuffrè 1959, accanto alla scrivania, fuori dalle librerie che coprono tutte le alte pareti, come oggetto intriso di affetto e ricordi, più che come volume da consultare. E’ una delle prime copie stampate, c’è una dedica a Rina, scritta a penna: “A Rina, mia moglie (‘come il meglio dell’anima mia’), non tanto forse per ciò che oramai questo libro è, ma per ciò che ha significato nella storia di questi anni difficili (e uno più duro), nella storia buona di questi anni così duri. Nelle cliniche di San Pietro, in ricordo, allora, di tutto, a Rina il suo Antonio”. Questo volume è una vetta del pensiero sardo imbozzolata – nella mia visita di mezz’ora fatta di emozioni rubate allo spirito di questa stanza – in un momento di vita personale, di amore. Tra la scrivania e un “Ciclista” di creta dell’artista Aldo Contini, come se lui in quegli ultimi giorni volesse avere sotto gli occhi soprattutto momenti di personale tenerezza, c’è in bella evidenza una partecipazione di nozze del 1956: Manlio Brigaglia e Marisa Bonajuto. Brigaglia è uno dei suoi tre più stretti amici. Cerco tracce scritte degli altri due: Giuseppe Melis Bassu e Salvatore Mannuzzu. Di quest’ultimo trovo una copia del suo primo romanzo, “Un Dodge a fari spenti”, del 1962, firmato con lo pseudonimo Giuseppe Zuri. La copia è dedicata “al capo del banditismo in Sardegna con raddoppiato affetto” e le pagine sono segnate da sottolineature di preparazione alla recensione che Pigliaru farà su Ichnusa. Di Giuseppe Melis Bassu, la più antica amicizia, nella mia breve ispezione non faccio in tempo a trovare testimonianze. Ma sicuramente le carte intorno a me sono costellate della sua presenza lungo tutta la vita di Pigliaru, dalla gioventù sino alla morte. Frugando tra i libri, mi imbatto, quasi insieme, in un ritratto di Salvatore Cambosu e in una copia con dedica della prima edizione di “Miele amaro”, del 1954. E’ quella che Pigliaru lesse prima di definirlo «il fatto più importante della cronaca letteraria sarda degli ultimi dieci anni». E’ un continuo, emozionante viaggio nel pensiero di Sardegna, questa visita. Tra i suoi numerosi libri è impossibile cercare qualcosa di specifico. Sono sistemati senza alcun ordine apparente negli scaffali realizzati, come la scrivania, la sedia e gli altri mobili della stanza, da tale Brocchi, operaio della rinomata falegnameria Clemente, su disegni di Gavino Tilocca. Trovo un “nido” di edizioni del 1942, Pigliaru aveva vent’anni. Era un fascista di vent’anni durante il regime fascista. Ci sono gli americani di Bompiani tradotti da Vittorini e da Pavese. C’è Goethe, c’è persino Gor’kij, che pensavo in italia fosse vietato. Trovo nello stesso nido, nella riedizione del 1942, “L’eredità” di Mario Pratesi curata da Vasco Pratolini. La stessa che ho io tra i miei libri in una ristampa del 1965. Quel ragazzo fascista a vent’anni leggeva anche quello che leggevo io, giovane comunista, alla stessa età, nell’Italia libera, democratica e post Sessantotto. Pure “Pian della Tortilla” e “Uomini e topi” di Steinbeck li ha letti nelle mie stesse edizioni e traduzioni. In un lampo capisco quel vecchio e difficile discorso di Ruggero Zangrandi sui giovani del Guf, sui ragazzi fascisti che ancora non sapevano di essere antifascisti. Penso che il Pigliaru antifascista fosse in fondo lo stesso di quel 1942, con l’unica differenza di una presa di coscienza del significato vero del fascismo, dell’ illusione dei suoi coraggiosi e coerenti vent’anni. Gli occhi mi cadono su una nave in bottiglia, dono di un suo compagno di carcere, rifletto su questo giovane fascista arrestato nel 1944 dalla polizia del Regno del Sud e che in un processo intellettuale sofferto come pochi diventerà il più grande pensatore sardo democratico dopo Gramsci, “il più grande intellettuale che la Sardegna abbia avuto in questo secolo fra quanti, di questi intellettuali, sono rimasti a vivere e lavorare in Sardegna”, dice Manlio Brigaglia nella bella biografia di Pigliaru scritta da Mavanna Puliga. E Ichnusa? Scorgo la raccolta tra i ripiani alti di una delle librerie. La rivista simbolo, dal 1956, di quel gruppo che propugnava la presenza attiva degli intellettuali nella società. Volevano che la Sardegna diventasse a tutti gli effetti una parte di Italia, pur nella sua cultura e nella sua autonomia amministrativa. Volevano essere la voce della questione sarda, convinti che esistesse una questione sarda. Sopra la porta, prima di uscire dallo studio, vedo un manifesto degli anni delle lotte studentesche, di quel Sessantotto che Pigliaru fece in tempo a vivere e a capire a partire dalla prima occupazione dell’università di Sassari il 2 marzo. E disse subito che non era un fenomeno soltanto studentesco, ma qualcosa di grande che sarebbe rimasto nella storia, sperava in un incontro tra tutti i democratici, metteva in guardia contro l’isolamento e contro le strumentalizzazioni fasciste. Ci credeva a quegli studenti, i suoi studenti. E quel manifesto sul muro accanto ai suoi maestri e ai suoi affetti ne è una struggente testimonianza. Esco passando per quel salotto un tempo percorso in un continuo andare e venire da intellettuali, studenti, amici e dai numerosi giornalisti di tutto il mondo che durante il periodo dei sequestri di persona cercavano, da lui, di capire la Sardegna prima di parlarne. Penso che tutto questo finirà a Orune, il paese che lo rapiva con un fascino antico e che,però, lui non voleva accettare del tutto, non voleva vivere. Forse era per lui la materializzazione di un mondo che nella “Vendetta” capì e spiegò come nessuno aveva fatto prima; ma senza indulgenza e senza complicità, soltanto con una grande e triste compassione verso un popolo abbandonato. Fuori, ritrovo Sassari. La città che amava? Certo. Pigliaru amava Sassari come amava Orune, la Sardegna e l’Italia. Ma questo non gli impedì di scrivere su Ichnusa nel 1964: “La famosa Sassari ‘senza fascismo e senza antifascismo’, non mai esistita se non nel mito, cioè là dove aveva un’effettiva ragione d’essere; là dove a vedere bene il ‘senza antifascismo’ valeva come un programma assai preciso e coerente ed il falso ‘senza fascismo’ come alibi di fondo”. Vada dove deve andare quel magnifico scampolo di memoria sarda ospitato ancora per poco in via Manno a Sassari. Vada ovunque possa servire a riportare in vita un po’ di quella grandezza.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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