A metà ottobre quando la preside mi aveva chiamata nel suo ufficio, a dispetto del calendario, l’aria non era quella frizzante dell’autunno: era una giornata che cuoceva a fuoco lento. Mi aveva mostrato la richiesta di uno studente americano che sarebbe venuto a frequentare la nostra scuola in qualità di auditore per un intero anno scolastico. Mi annunciava l’arrivo oltreoceano di quel ragazzo di lì a tre settimane e mi aveva chiesto consiglio sulla sua collocazione.
Ogni insegnante sa che non tutte le classe sono uguali, che non tutti gli alunni sono disposti ad accettare, per un intero anno, la presenza di un nuovo inquilino in un gruppo già consolidato.
– Sistemiamolo nella mia III A – le avevo risposto senza esitazione.
Una classe come poche ne ho trovate e come poche, credo, ne troverò. Alunni poco diligenti, pigri all’inverosimile, asinacci senza eguali, ma straordinariamente affettuosi, eccezionalmente dolci, meravigliosamente cordiali e accudenti.
L’arrivo di Metthew pareva una data lontana e il tempo sembrava non trascorrere mai. Ma ovviamente il tempo passava e così il giorno impossibile arrivò, insieme a Matthew.
Aveva varcato l’aula, accompagnato dalla Dirigente, lungo e magro come una giornata senza pane. Indossava un sorriso fatto con sforzo, idoneo alla circostanza. E altrettanto costretto era il sorriso dei miei alunni, istruiti a dovere per tre settimane. Lo osservavano discreti, mentre la dirigente ed io spiegavamo loro i pochi dettagli del suo vissuto di cui eravamo a conoscenza. Ma quelli non ascoltavano nemmeno una parola, lo leggevo nei loro occhi. Occhi coi quali trascorrevo sei ore alla settimana da tre anni a quella parte. Non potevo dire li conoscessi come le mie tasche, ma quasi.
Per un paio di giorni gli avevano fatto una radiografia continua. Poi avevano istintivamente deciso, senza tuttavia deciderlo, che Matthew era uno di loro. Da quel momento, dopo un’invisibile cerimonia per l’investitura, gli avevano schiuso il loro mondo. E l’avevano teneramente incluso in quel microcosmo. Un piccolo mondo fatto di parolacce in dialetto, pronunciate con accento americano, nella totale inconsapevolezza della volgarità di quel lessico; di uscite serali in pizzeria e discoteca; di permessi per orari di rientro più generosi, strappati alla famiglia ospitante; di scorribande adolescenziali; di nottate trascorse in spiaggia col tempo mite e anche di qualche strappo alle regole, forse.
Era stato un bell’anno per loro, quello.
Si erano salutati come fratelli, come solo un abbraccio può raccontare. L’arrivederci di amici che solo esperienze condivise riescono a legare per la vita. Si erano congedati con la tacita promessa di rivedersi.
Sono passati diversi anni da allora. Dopo l’alluvione ho ricevuto una mail da Matthew:
“Buongiorno professoressa, Come sta? Spero che lei e i suoi amici stiano benissimo. Sto guardando alcuni video, foto, e i giornali di Italia e Sardegna. So che Olbia è in parte distrutta. Mi fa sentire orribile. Mi dispiace tanto per questa situazione, e spero che lei stia in un spirito grande come sempre! Vorrei aiutare, ma sappiamo che non è cosi semplice fra gli Stati Uniti. Adesso sto studiando italiano all’università a Chicago. Quando ho sentito del ciclone, ho saputo che devo fare qualcosa per i miei amici. Oggi, ho parlato con tutti i professori all’università come possiamo aiutare l’isola più bella nel mondo! Ho deciso che organizzerò il dipartimento italiano di DePaul (la mia università) per creare una raccolta fondi. Ho controllato l’internet, e non ho trovato qualcosa per le famiglie che hanno perso tutto, e per le scuole. Non penso che possiamo raccogliere tantissimi soldi, ma se potrei aiutare anche un poco, sarò molto più contento. Olbia non è una città dove sono andato per una vacanza: Olbia è la mia comunità. È il posto dove ho cresciuto molto e ho trovato amici e famiglie. Non c’è niente che non farò per la mia comunità. Mi fa sentire contentissimo quando sento storie dove un olbiese aiuta altri, e vorrei essere uno di voi. Se non possa pulire in persona con voi, possa fare qualcosa. Io, e tante persone qua a Chicago stiamo pensando di Sardegna e specialmente Olbia. Non vedo l’ora il momento in cui possa aiutare la mia famiglia di Olbia. Aspetterò per la sua risposta. Grazie a mille.
Cordialmente, Matthew”
Metthew durante tutto l’anno trascorso da noi non era diventato un sardo, non aveva rinnegato i propri valori e nessuno gli aveva intimato quelli da condividerne. I ragazzi sanno che non possono imporre a qualcuno di “appartenere”, ma a loro è possibile solo creare le premesse affinché qualcuno possa sentirsi appartenente. E forse lo dovrebbero spiegare a molti adulti.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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